Attraverso un’intervista pubblicata su Il Manifesto di qualche settimana fa, ho avuto modo di conoscere Moreno Ferrari, stilista cinquantenne spezzino, che ha lavorato per CP Company, il Gruppo Finanziario Tessile ed altre importanti aziende.
Nella moda, Ferrari è conosciuto anche come uno sperimentatore che ama interagire con le nuove frontiere dell’arte contemporanea.
Nelle sue collezioni più recenti, ha presentato una mantella che diventa una tenda ed un’altra che si trasforma in amaca da appendere ad alberi o lampioni; un giaccone che può diventare una poltrona o un materassino; un impermeabile che si trasforma in piccola serra o in un pensatoio dove coltivare pensieri; uno zaino gilet; uno zaino cuscino; una mantella che può diventare un aquilone…..
La sua è una frontiera verso un’architettura leggera, debole, da indossare o portarsi appresso.
E’ un confine tra abito e oggetto.
Il suo è come un lavoro sul corpo che si modifica e si trasforma in corrispondenza alle necessità di movimento.
Certo, parlare di necessità di movimento in questo periodo, è un po’ andare controcorrente.
Blindarsi in casa e immobilizzarsi sembra essere il più giusto atteggiamento, ovvero quello che garantisce la migliore idea di sicurezza.
Però, su questo aspetto della sicurezza, è curiosa la considerazione di Renzo Piano, il quale ha notato come nella strage delle due torri si sia salvato proprio chi ha trasgredito la vecchia regola dello stare immobili al proprio posto.
Con una forzatura creativa, l’architettura debole può essere pensata come strumento per non cedere alla paura, per uscire dal bunker.
Moreno Ferrari la definisce debole perchè duttile e lunatica, legata alle emozioni del fare quello che ti va in questo o quel momento.
Tutto il contrario dell’uniforme, indossata da chi opera al servizio di un preciso compito.
Forse, con l’architettura debole stiamo affrontando il prototipo dell’anti-uniforme.
D’altronde, nel nostro comune pensare, l’uniforme è sicurezza.
Ma chi indossa un’uniforme?
Il manovale ha un’uniforme, così i medici e i tranvieri, ma anche i gelatai ed i manager della City.
E ovviamente le forze dell’ordine hanno l’uniforme.
E anche chi combatte le uniformi ha un’uniforme.
A questo proposito mi piace pensare agli scontri a Genova.
C’era da una parte la polizia, con l’uniforme, dall’altra i dimostranti.
Ovvero i Black Bloc (tutti neri con cappucci ed anfibi), le tute bianche e poi gli altri (quelli con i caschi del motorino, le armature di gommapiuma, i dread locks, piercing e tatuaggi).
In mezzo i fotografi, con le loro borse a tracolla, le macchine appese al collo ed i gilet con tante tasche….
Mentre nella zona rossa i big della politica con i loro completi sartoriali…..
Tutto ciò che indossiamo è un’uniforme?
Faccio fatica ad accettarlo.
Se così fosse, indossare significherebbe (oltre che appartenere, identificarsi, condividere, etc) soprattutto rifugiarsi dalla paura.
Se così fosse, chi ci potrà liberare?
Forse le architetture deboli, con le quali impareremo ad indossare per fare, piuttosto che per essere?