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La carta igienica bugiarda e la discoteca per uno solo

Ci avevo creduto anch’io, ma non è vero: la carta igienica non è il bene di consumo più saccheggiato durante la quarantena.

L’ha spiegato bene il solito Paolo Attivissimo in un suo articolo pubblicato sul portale Zeus, che vi riassumo in breve.

Sono due le sue controdeduzioni.

La prima è che la sparizione della carta igienica sia in realtà un fenomeno mediatico. 

Riceviamo la maggior parte delle informazioni in forma visiva e quindi un oggetto ingombrante e vistoso come un pacco di carta igienica spicca di più rispetto a una scatoletta di tonno, sia nel carrello della spesa pieno, sia come spazio vuoto sugli scaffali“.

E in più c’è l’esito mediatico che non conta poco: il consumatore con il pacco famiglia da trentadue rotoli sottobraccio è sicuramente più fotogenico di un cliente con otto scatoline di dentifricio.

E poi vogliamo mettere l’aspetto quasi ridicolo e assurdo dell’incetta di carta igienica rispetto a una più sensata scorta di zucchero o detersivo?

Quindi una fake news? Non proprio, ma quasi…

Seconda controdeduzione, più concreta.

Dovendo stare in casa invece di andare a scuola o al lavoro, la conseguenza è che si consuma più carta igienica nel proprio domicilio e molta meno nei luoghi pubblici. Questo causerebbe un effettivo aumento della necessità di carta igienica per uso domestico e il continuo svuotamento degli scaffali. Il rischio di rottura di stock è per forza quotidiano: una cosa è consegnare confezioni per uso casalingo, un’altra fornire pallet per scuole, uffici, stadi, aeroporti, stazioni, autogrill, ristoranti, etc..

Quindi, o per uno, o per entrambi i motivi sopra elencati, “possiamo smettere di dare la colpa di queste momentanee penurie alla stupidità del genere umano“. Paolo Attivissimo conclude con stile, ammettendo però che la tesi della stupidità dava sicuramente più soddisfazione.

È chiaro che quando non capiamo le cose, invece di ammettere la nostra ignoranza, giochiamo la carta della stupidità degli altri.

Spesso però le cose che non capiamo le accettiamo comunque, soprattutto quando sono contestualizzate all’interno del recipiente simbolico dell’arte. Almeno questo succede a me: mi faccio piccolo piccolo (con l’arte non si può fare la figura degli ignorantoni) e provo almeno a indagare.

Così mi è successo per un’iniziativa della Biennale Val Gardena, dove a Ortisei ha aperto una piccola discoteca per una persona alla volta. No, mi dispiace: non è stata pensata in ottica Covid19. Si tratta di una piccolissima baita in legno, che presenta l’insegna Disco For One. È un omaggio a Giorgio Moroder, nato da quelle parti. Se l’iniziativa non avesse la sua bella narrazione e il suo messaggio simbolico, sarebbe una bella str….ta. Invece, per come è stata presentata, risulta affascinante. Infatti, tutto quello che è uscito sui media (finora non tanto, a dire il vero) non ha presenta cortocircuiti e di questo ne stanno beneficiando tutti i soggetti coinvolti.

Un po’ come è successo per Achille Lauro a San Remo, dove se si sbagliava una sola virgola, quello che usciva poteva scatenare l’effetto baraccone. E invece, come è stato evidente, tutto è andato per il meglio e il brand Gucci si è portato a casa un’esposizione mediatica pazzesca e di alta qualità. Lì, l’operazione è stata una sorta di geniale hackeraggio, dove l’idea è stata supportata dalla migliore attività di ufficio stampa dai tempi del lancio del telefono cellulare in occasione di Italia 90. 

È proprio vero: il linguaggio dell’arte ci aiuta a crescere e ad allargare i nostri orizzonti.

Ma come faremo nell’immediato post Coronoavirus con l’arte, i suoi eventi, le sue esposizioni, i suoi spettacoli? 

C’è stata a Stoccolma la provocazione della presentazione di un’opera di Rossini davanti a un singolo spettatore, scelto attraverso un sorteggio, il tutto organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura. Stessa cosa l’ha proposta il Teatro dell’Opera e del Balletto di Perm, in Russia. Una sorta di “Opera for One” invece del “Disco for One” di cui abbiamo parlato. 

Ok, quelle notizia sono uscite in tutto il mondo, ma non sono state presentate come possibili soluzioni… ci mancherebbe altro.

Mi ha invece affascinato l’idea di far esplorare ad alcune compagnie teatrali l’ipotesi dei cosiddetti Peep Show. I quartieri a luci rosse delle capitali nord europee presentano questi spettacolini, per cui chi entra assiste appartato in singole stanze e pertugi. Per il teatro potrebbe essere una strada percorribile, al fine di garantire le esigenze di distanza sociale. Lo riportava il sito Exibart, che sottolineava di quanto fosse palloso il teatro in video, che non poteva essere quindi un’alternativa da prendere in considerazione. 

La questione non è di poco conto. Il teatro e l’arte a tutti i livelli, hanno il faticoso e affascinante ruolo di interpretare il nostro presente: è da lì che molti si aspettano di ricevere una nuova interpretazione e messa a terra del prezioso concetto di comunità.

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere di Romagna ed è visibile a questo link.

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