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La piazza Malatesta, il celodurismo e l’Ibridocene

Rimini è in scena un dibattito animato attorno alla nuova piazza Malatesta che affaccia sul Castel Sismondo, sede principale del neonato Museo Fellini.

Non farò la cavolata di inserirmi nella guerra tra i pro e i contro in merito al risultato dei lavori: mi interessano invece il tono e l’approccio al dibattito.

Quello che può interessare anche i non riminesi, è che ci troviamo in una situazione in cui hanno ragione in tanti, anche se questi “tanti” hanno opinioni diverse che portano, a loro volta, a conclusioni diverse.

Come sappiamo tutti, è assolutamente possibile che la ragione non stia da una parte sola. Ma ultimamente, ogni volta che accade, casco dal pero come se mi trovassi davanti a qualcosa di fantascientifico. 

Mi trovo personalmente a favore del progetto della piazza per come è stato realizzato, anche dopo aver letto e ascoltato le varie opinioni contro. 

Malgrado la mia posizione abbastanza netta, non riesco a essere intollerante verso chi la pensa in maniera completamente differente… sia perché molte di quelle diverse posizioni hanno comunque senso, sia (soprattutto) grazie al mio approccio alla questione, emotivamente molto distaccato.

Comprendere però il senso delle opinioni differenti è stato per me molto difficile, visto che ho dovuto epurarle da incrostazioni di odio, da argomentazioni non pertinenti, da giustificazioni che partivano da troppo lontano, da necessità di rivalsa e di visibilità personale, etc…

Tutto questo sia nell’ambito social, che nelle chiacchiere tra amici “in presenza”.

Lo scenario che evidenzia il dibattito cittadino (e non solo: c’è stata anche un’interpellanza parlamentare…) è comunque quello solito: a fronte di esposizioni anche ben argomentate, nelle repliche e nei commenti vige lo scontro tra ultras.

La polarizzazione delle opinioni è un fenomeno che stiamo vivendo da tempo, accelerato dal grande successo del celodurismo del “senza se” e del “senza ma”. Tant’è che a volte basta fare un’analisi dove si evidenziano i vari aspetti di una questione, che si dà l’idea di non andare a fondo alle cose e di menare il can per l’aia.

Oggi chi vende certezze, vince… e chi vende certezze non deve argomentare, ma lanciare sentenze.

E non c’è nulla come gli slogan ad effetto per evidenziare il senso di certezza.

La frase presa in prestito da “Un pugno di dollari” è molto efficace: se l’uomo con un discorso incontra l’uomo con uno slogan, quello con il discorso è un uomo morto.

Quindi la complessità spesso si bypassa attraverso scorciatoie di pensiero che rappresentano l’humus ideale per le polarizzazioni da ultras.

Eppure…

Eppure i “Maestri” ci dicono che siamo entrati nell’Ibridocene.

Per spiegare bene questa nuova era ibrida, al Web Marketing Festival il professor Luciano Floridi ha portato come similitudine le mangrovie, capaci di vivere sia in superficie che in acqua.

Un altro maestro, Paolo Iabichino, ci sprona per dotarci della capacità e volontà nell’accogliere le interconnessioni e connettere tutte le possibili polarizzazioni divergenti: dobbiamo abbracciare l’ibrido come una nuova condizione ideale, una nuova era geologica (da “Ibridocene“, edizioni Hoepli).

E ci parla di Phygital, un mondo dove la fisicità abbraccia il digital e dove è necessario apprendere per propagazione, provando nuove strade, ascoltando opinioni differenti e unendo discipline anche molto distanti tra loro.

Quindi la nostra capacità di progredire è strettamente legata allo sviluppo della nostra indole di condivisione.

Lo storico Harari ci ha dato una sua spiegazione su perché l’essere umano ha imparato a vivere e convivere in sempre più grandi tribù: perché insieme abbiamo saputo immaginare e idealizzare (un Dio, una moneta, uno stato…).

Eppure la nostra incapacità di confronto sereno è sotto gli occhi di tutti, mostrando che non solo la nostra evoluzione non è finita, ma che forse di strada ne dobbiamo fare ancora tanta.

Nel suo piccolo, il dibattito riminese ci ricorda che se anche l’argomento è la cultura e, nello specifico, l’approccio filologico con cui occorre approcciarsi alla rigenerazione di una piazza storica, il linguaggio e il tono tendono ugualmente a strabordare, a sputare rabbia e rancore.

Eppure questo è lo stesso pubblico che il marketing studia e analizza sotto continui e sempre più precisi riflettori. 

È lo stesso pubblico che ha portato Kotler, il padre del marketing, ad aggiungere un’ulteriore “P” alle sua teoria delle 4 P (product, price, placement, promotion). 

La nuova P è quella di People. Sì, proprio noi. Gli ultras… quella gente lì che litiga sempre.

C’è da chiedersi se le meritiamo tutte quelle attenzioni.

Al concerto di Patti Smith, al momento di “People have the power” avevamo tutti i lacrimoni…

Come dire: spesso ce la raccontiamo e ce la cantiamo.


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Fermi tutti: questo è un esperimento sociale

L’altro giorno, su indicazione di mio figlio, ho assistito a una diretta Instagram del professore Giovanni Boccia Artieri, di cui mi pregio essere amico.

La diretta era una sorta di dialogo intervista con Paolo Iabichino, creativo, pubblicitario, scrittore e genio del nostro tempo.

Iabichino l’ho conosciuto grazie a “Scripta Volant“, divertente e istruttivo saggio uscito nel 2017.

Dal dialogo tra i due sono emerse varie cose interessanti e, c’era da prevederlo, diverse parole d’ordine.

In primis, almeno per me, BONIFICARE L’IMMAGINARIO.

Si è approdati a questo dall’analisi del calo di aggressività e rancore nei post di queste ultime settimane.

Il trauma sta contribuendo a questo.

“Un ecosistema complesso come il nostro, ha bisogno di un trauma” per provare a fare ordine in un mondo pieno (troppo pieno) di contraddizioni.

Parole sante.

Ultimamente su Sky ho visto Another Happy Day, film del 2011 premiato al Sundance.

La storia vede come protagonista un diciasettenne un po’ deviato che si trova costretto a partecipare a un matrimonio.

Il suo contesto familiare è super incasinato e particolarmente teso.

A un certo punto il ragazzo afferma alla madre, una fantastica Ellen Barkin, che non potrà essere certo un matrimonio a contribuire a rasserenare i rapporti, ma piuttosto un funerale.

E così sarà, alla fine del film, con la morte del nonno.

Il trauma, appunto.

In questi giorni ho finalmente preso in mano “Possiamo salvare il mondo prima di cena“, il best seller di Jonathan Safran Foer.

Il teorema di Foer è semplice…

Abbiamo compromesso il pianeta e qualunque cosa facciamo, è troppo tardi… e ritiene che la crisi climatica è direttamente proporzionale alla nostra capacità di credere.

Una delle genialate del libro è il parallelismo con la vicenda dello sterminio del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale.

C’è un passaggio stupendo, quando un testimone degli accadimenti in Europa, dopo un viaggio pericolosissimo, arrivò a Washington nel 43 dove incontrò uno dei massimi giuristi americani, anch’esso ebreo, tale Felix Frankfurter.

Frankfurter, allibito, non mise in dubbio la veridicità dei fatti, ma ammise la propria incapacità di credere a quella verità.

Ovvero: non aveva abbastanza elementi da rimanere emotivamente scosso.

E qui arriva la sentenza di Foer: per mobilitare le persone occorre che l’argomento diventi una questione emotiva.

Sono in molti che hanno acquisito la cognizione che il nostro standard di vita non è compatibile con la sostenibilità del pianeta.

Io sono uno di questi.

Eppure, come afferma Foer, sto facendo ben poco per colmare i gap.

Perché?

Perché non sono abbastanza coinvolto emotivamente.

Il Covid 19 è un acceleratore emotivo.

E questa cosa – parole di Iabichino e Boccia Artieri – ci sta permettendo di riconsiderare le priorità.

La paura (il dolore, la sofferenza, le perdite) che ci sta generando il Coronavirus ci ha fatto toccare con mano le nostre fragilità.

Ci fa capire ogni minuto l’importanza delle cose che credevamo scontate.

A proposito di cose scontate…

L’altro giorno – non ricordo su quale sito – è stato lanciato un gioco, che cita come segue: hanno scoperto un nuovo numero tra il sette e l’otto e tocca a voi disegnarlo.

Pazzesco! Difficilissimo!

Non avevo mai pensato che inventare un numero fosse così disarmante: ti trovi davanti un vuoto cognitivo.

Non sai dove cominciare, come impostare, dove arrivare…

Almeno questo è l’effetto che mi è arrivato.

Eppure, cosa c’è di più scontato dei numeri?

Quindi dicevamo: bonificare l’immaginario.

Ovvero, rigenerare la nostra idea di mondo.

È questa l’eredità che ci consegna il Coronavirus?

Se così fosse, siamo davvero di fronte a un esperimento sociale.

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