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Fermi tutti: questo è un esperimento sociale

L’altro giorno, su indicazione di mio figlio, ho assistito a una diretta Instagram del professore Giovanni Boccia Artieri, di cui mi pregio essere amico.

La diretta era una sorta di dialogo intervista con Paolo Iabichino, creativo, pubblicitario, scrittore e genio del nostro tempo.

Iabichino l’ho conosciuto grazie a “Scripta Volant“, divertente e istruttivo saggio uscito nel 2017.

Dal dialogo tra i due sono emerse varie cose interessanti e, c’era da prevederlo, diverse parole d’ordine.

In primis, almeno per me, BONIFICARE L’IMMAGINARIO.

Si è approdati a questo dall’analisi del calo di aggressività e rancore nei post di queste ultime settimane.

Il trauma sta contribuendo a questo.

“Un ecosistema complesso come il nostro, ha bisogno di un trauma” per provare a fare ordine in un mondo pieno (troppo pieno) di contraddizioni.

Parole sante.

Ultimamente su Sky ho visto Another Happy Day, film del 2011 premiato al Sundance.

La storia vede come protagonista un diciasettenne un po’ deviato che si trova costretto a partecipare a un matrimonio.

Il suo contesto familiare è super incasinato e particolarmente teso.

A un certo punto il ragazzo afferma alla madre, una fantastica Ellen Barkin, che non potrà essere certo un matrimonio a contribuire a rasserenare i rapporti, ma piuttosto un funerale.

E così sarà, alla fine del film, con la morte del nonno.

Il trauma, appunto.

In questi giorni ho finalmente preso in mano “Possiamo salvare il mondo prima di cena“, il best seller di Jonathan Safran Foer.

Il teorema di Foer è semplice…

Abbiamo compromesso il pianeta e qualunque cosa facciamo, è troppo tardi… e ritiene che la crisi climatica è direttamente proporzionale alla nostra capacità di credere.

Una delle genialate del libro è il parallelismo con la vicenda dello sterminio del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale.

C’è un passaggio stupendo, quando un testimone degli accadimenti in Europa, dopo un viaggio pericolosissimo, arrivò a Washington nel 43 dove incontrò uno dei massimi giuristi americani, anch’esso ebreo, tale Felix Frankfurter.

Frankfurter, allibito, non mise in dubbio la veridicità dei fatti, ma ammise la propria incapacità di credere a quella verità.

Ovvero: non aveva abbastanza elementi da rimanere emotivamente scosso.

E qui arriva la sentenza di Foer: per mobilitare le persone occorre che l’argomento diventi una questione emotiva.

Sono in molti che hanno acquisito la cognizione che il nostro standard di vita non è compatibile con la sostenibilità del pianeta.

Io sono uno di questi.

Eppure, come afferma Foer, sto facendo ben poco per colmare i gap.

Perché?

Perché non sono abbastanza coinvolto emotivamente.

Il Covid 19 è un acceleratore emotivo.

E questa cosa – parole di Iabichino e Boccia Artieri – ci sta permettendo di riconsiderare le priorità.

La paura (il dolore, la sofferenza, le perdite) che ci sta generando il Coronavirus ci ha fatto toccare con mano le nostre fragilità.

Ci fa capire ogni minuto l’importanza delle cose che credevamo scontate.

A proposito di cose scontate…

L’altro giorno – non ricordo su quale sito – è stato lanciato un gioco, che cita come segue: hanno scoperto un nuovo numero tra il sette e l’otto e tocca a voi disegnarlo.

Pazzesco! Difficilissimo!

Non avevo mai pensato che inventare un numero fosse così disarmante: ti trovi davanti un vuoto cognitivo.

Non sai dove cominciare, come impostare, dove arrivare…

Almeno questo è l’effetto che mi è arrivato.

Eppure, cosa c’è di più scontato dei numeri?

Quindi dicevamo: bonificare l’immaginario.

Ovvero, rigenerare la nostra idea di mondo.

È questa l’eredità che ci consegna il Coronavirus?

Se così fosse, siamo davvero di fronte a un esperimento sociale.

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