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Animali silenziosi

Siamo diventati silenziosi perché attorno c’è tanto rumore” (Franco Battiato).

A proposito di silenzio…

Potrà sembrare strano, ma la tecnologia ci ha reso silenziosi.

Socializziamo in silenzio davanti ad uno schermo.

O meglio… urliamo, sbraitiamo, sentenziamo, discutiamo animatamente e simultaneamente attorno a mille argomenti, ma tenendo la bocca chiusa e muovendo solo le dita delle mani.

Sul piano dei comportamenti, affrontiamo in silenzio anche le nostre riscosse o ingiustizie.

È infatti in silenzio che usciamo da un hotel o da un ristorante… senza dire nulla, salutando normalmente.

E poi sul web ci scateniamo con le critiche, a volte urlando (sempre con la tastiera) la nostra delusione e rabbia.

Al Be-Wizard del Marzo scorso (la due giorni di studio sul web, organizzata a Rimini da Titanka), tra i tanti ottimi interventi, mi è rimasto impresso anche quello di Paolo Zanzottera, un vero personaggio, che potrei definire una via di mezzo tra un esperto di web ed un coach.

A lui è spettato il compito di introdurre il tema dell’edizione: Human2Human.

Zanzottera ha iniziato il suo intervento così: “Gli animali più pericolosi sono proprio quelli silenziosi…”.

Quelli che ti tendono l’agguato appena sbagli mossa.

E, in quel mondo lì, la Savana si chiama Tripadvisor, oppure Facebook, Twitter…

E da qui è poi partito il ragionamento attorno all’H2H, Human to Human marketing.

Il teorema di Zanzottera non fa una piega…

“A queste persone silenziose, possiamo rispondere solo da persona a persona… sapendo bene che non si risponde solo a quella persona, ma a tutti quelli che potrebbero leggere”.

In questo silenzio, secondo Zanzottera, è determinante far sentire che dietro a un sito, a una App, etc, ci siano delle persone.

Il suo consiglio è chiaro e lampante: umanizzare tutta la strategia digitale.

D’altronde l’Umanesimo è nel nostro Dna di Italiani… “e questo è il momento storico in cui si può avere un nuovo Umanesimo digitale”.

Quindi: parlare a persone e non utenti, portare avanti conversazioni e non comunicazione, rivolgersi a un pubblico e non a un target.

E i testi digitali non dovrebbero essere testi, ma storie… soprattutto nei punti critici.

E in tutto questo, i social network dovrebbero essere gli strumenti funzionali.

Ad esempio, Lego utilizza Twitter non certo per vendere o mostrare i propri prodotti o per lanciare promozioni.

Il progetto “Builder of tomorrow” nasce per ispirare e sviluppare i costruttori di domani… i nostri figli.

Figo, vero?

Zanzottera poi ha fatto riferimento anche all’inferno di Dante, dimostrando come anche le immagini siano storie.

È stato infatti l’Inferno di Botticelli che ha ispirato Dante, e la sua immagine ha condizionato l’immaginario collettivo per secoli.

 

 

 

 

 

 

Sul concetto che anche le immagini siano storie, Barilla ha fatto scuola.

Come sappiamo, ha fatto scuola sia nel bene…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E sia nel male…

 

 

 

 

 

 

Se da una parte, attraverso una bellissima idea di marketing, ha ben interagito con la settimana della moda milanese, da un altra ha ricevuto, nella stessa lingua, quel che si meritava in relazione all’infelice uscita sui gay.

Un altro bellissimo esempio ce lo mostra Snickers, all’indomani del morso di Suarez a Chiellini nella partita dei Mondiali brasiliani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Oppure la sempre incredibile e attenta Ceres, all’indomani dell’assoluzione di Berlusconi nella sentenza Ruby bis:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il messaggio è semplice: dimostrare che dietro a quell’attività di comunicazione web, ci sono persone che rispettano il tempo che metti a disposizione come utente, premiandoti con il loro impegno nel darti contenuti che meritano attenzione.

Dunque ci siamo finalmente resi conto che l’Umanesimo è bene che irrompa nella tecnologia.

Adesso non ci sono più scuse, nel marketing, per non mettere le persone di nuovo al centro.

 

21 Agosto 2015

 

 

 

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Fino a che punto…

Nel dibattito relativo al Cocoricò, mi sono trovato ad assumere un atteggiamento distaccato.

Ho provato a capire da cosa potesse derivare questo mio starne fuori.

Sicuramente che non è stato menefreghismo.

Forse un atteggiamento snob? Può darsi, ma sarebbe inconfessabile.

Direi piuttosto una volontà di puro ascolto e di osservazione su ciò che stava succedendo, accompagnata da una massiccia dose di sana rassegnazione.

Per spiegare meglio questo mio stato, mi viene in mente la modalità che adottano Stanlio & Ollio nelle loro comiche… come in quella scena – una delle tante, giusto per fare un esempio – in cui qualcuno si avvicina loro e, con una bella pennellessa, li spalma di vernice fresca da destra a sinistra, dall’alto al basso… e loro lì, a subire con l’atteggiamento di chi osserva per vedere fino a che punto quel tipo può arrivare…

Ecco, questa cosa qua la chiamerei “effetto fino a che punto…”.

Nel contesto di “fino a che punto…”, i campioni in carica sono sicuramente quelli de “La Zanzara“: programma interessantissimo.

Con La Zanzara, in onda nel drive-time di Radio24, Cruciani e Parenzo da anni stanno portando avanti un esperimento antropologico/sociale di grandissima rilevanza scientifica… almeno secondo me.

L’esperimento consta nel dimostrare che, malgrado tutti gli strumenti di analisi a disposizione per migliorare la nostra conoscenza (l’istruzione, il web, i tanti media, etc), la nostra capacità di analisi può arrivare a livelli di bassezza preoccupanti.

Cruciani, in ogni momento della sua trasmissione, vuole farci capire che c’è in tutti noi un lato (e quindi non un piccolo pertugio) che, se ben stuzzicato, può generare ragionamenti sconsiderati.

La Zanzara, insomma, è lo specchio che noi possiamo essere, e siamo, anche quella roba lì.

E ogni volta che credi che la trasmissione abbia ospitato qualcuno che sia riuscito a toccare il cosiddetto “fondo del barile”, il geniale Cruciani è pronto a dimostrarti che non è così… Della serie: oggi, se voglio, posso mostrarti e dimostrarti che c’è di peggio rispetto a ieri.

Da qui poi parte il cortocircuito verso il quale non riesco ancora a prendere le misure, per cui, anche se ti senti una persona intelligente, se quel programma non ospitasse il senso del becero, sicuramente non lo ascolteresti…

E mi rendo conto che più “La Zanzara” scava nel becero, nell’estremità delle posizioni rigide, o nelle sfuriate da cui poi dialetticamente non può più tornare indietro, più il programma vince negli ascolti e, soprattutto, nella fidelizzazione dei suoi ascoltatori.

Detto questo, se elaboriamo un mix tra Stanlio & Ollio e Cruciani, ne esce un “osservatore” rassegnato che, senza reagire, acquisisce il desiderio masochista di cercare di comprendere fin dove si riesca ad arrivare…

Ecco… durante il recente dibattito su droga/divertimento/giovani/sballo, spesso mi sono riconosciuto in quel genere di “osservatore”.

Conseguentemente, invece di reagire, ho preferito sentirmi inerme.

Probabilmente è l’atteggiamento di chi avverte che questa non sia più la sua battaglia.

 

16 Agosto 2015

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Si balla con le braccia

L’avrete notato anche voi.

Magari anche molto prima di me.

A dir la verità, è stata Monica ad aprirmi gli occhi: “guarda, ballano con le braccia…”.

Andiamo con ordine.

 

Da un po’ di tempo è mutata la mappatura del loisir legato al divertimento notturno.

I grandi appuntamenti del cosiddetto “popolo della notte “ (c’è ancora qualcuno che lo chiama così..) non vedono più le discoteche e i Super Club in primo piano.

E neanche le One-Night itineranti (Cream, Global Gathering, etc), o le varie Love e Street Parade.

Da qualche anno abbiamo potuto notare che si sono affacciati nuovi luoghi e nuove mète.

In primis, direi il Belgio (grazie all’evento Tomorrowland), l’Ucraina (vedi il raduno Kazantip)…

A posizionarsi sul top dell’attenzione sarebbero quindi quel genere di eventi che rappresentano lo sviluppo ultimo del fenomeno Club Culture.

 

Come sta succedendo nelle politiche di marketing territoriale, i flussi turistici sono sempre più emotivamente condizionati dallo strumento dell’evento.

L’evento che – come mi ha insegnato l’amico Andrea Pollarini – è il più antico strumento di comunicazione sociale dell’essere umano, continua ad essere anche il più moderno.

Caratteristica di eventi come il Tomorrowland – così come negli altri simili che vengono organizzati in tutto il Pianeta – è che il protagonista assoluto è il DJ, quello di caratura internazionale…

Insomma, quello che ha le hits in tutte le classifiche, trasmesse in tutte le radio, suonate in tutte le disco, ballate in tutte le spiagge…

Questi eventi stanno consacrando il DJ come elemento di richiamo molto di più di quanto è accaduto nelle discoteche dagli anni 90 in poi.

Nella realtà di Aquafan, grazie alla partnership con il Cocoricò, abbiamo avuto modo di ospitarne tre: Paul Kalkbrenner, Martin Solveig e Avicii.

Quest’ultimo, il 10 agosto scorso, ci ha permesso di realizzare il record nella storia del nostro parco: ben16 mila presenze con un incasso di circa mezzo milione di euro (guarda il video).

Per la cronaca, l’artista aveva un cachet di 180 mila euro e la sua scheda tecnica ha comportato un costo di produzione di oltre 70 mila euro (dando lavoro a ben 5 ditte italiane).

Per avere un’idea più generale sui compensi di questi artisti, guardatevi questo pezzo uscito sulla versione italiana dell’Huffington Post.

I Super DJ nel mondo sono ormai diverse decine.

Per capire chi sono, basta leggere DJ Mag, oppure dare un’occhiata a chi suona al Tomorrowland, oppure scorrere il calendario dei locali di Ibiza, o quello del Cocoricò.

Sempre per avere un’idea più chiara, il “Cocco”, per la sua programmazione, investe ogni anno circa un milione e duecento mila euro in DJs…

Il fenomeno è in continua crescita.

Per cui oggi, quando un ragazzo afferma di andare ad un concerto, non sempre significa che sul palco poi ci sia un cantante, un chitarrista, un batterista…

Spesso c’è una consolle…

 

Senza entrare nel merito se sia più bello o più interessante assistere ad un live act di Springsteen, dei Muse, oppure a quello di Skrillex, Calvin Harris o di Deadmau5 (si legge “dedmaus”, è un canadese che si esibisce con una ultratecnologica testa da topo), va detto che il fenomeno dei mega show prodotti dai Super DJ sta da anni condizionando la modalità di vivere gli eventi musicali.

 

Siamo di fronte ad una nuova modalità di rito collettivo.

Tutti ballano ma, come nei concerti rock, sono comunque disposti stretti a ridosso del palco.

Ma c’è di più: tutti sono consapevoli di far parte – all’interno dello stesso show – di una scenografia/coreografia che si muove a ritmo di hertz, regalando emozioni sia a chi partecipa, sia a quei pochi che assistono passivamente.

 

Ma veniamo al punto… al ballo.

Siamo abituati a inquadrare il ballo come ad un movimento che parte dal basso, ovvero dal rapporto che i piedi ed i passi hanno con il terreno e con il ritmo.

Siamo spesso affascinati dalle danze tribali che proprio dal battere e spingere i piedi sulla Terra sembra puntino a raccogliere l’energia che il Pianeta genera.

Con l’arrivo della nuova musica elettronica (teckno, house) già le discoteche mostravano negli anni 90 il popolo della notte muoversi con nuove dinamiche attorno al ballo.

Il movimento delle braccia, sempre più spesso in alto, ha cominciato ad assumere più importanza rispetto a quello degli arti inferiori.

 

Oggi, i grandi eventi house e teckno ci mostrano due precisi soggetti protagonisti…

Da una parte il Dj, che, come un Messia, è sul palco insieme ai suoi sempre più straordinari effetti speciali: mega schermi video, effetti pirotecnici, cannoni di CO2, laser, etc…

Dall’altra parte il pubblico… migliaia di persone tutte con le mani al cielo, che si muovono a ritmo, ondulandosi, abbassandosi, creando effetti scenografici non di semplice contorno, ma, al contrario, capaci di essere parte integrante dello spettacolo stesso.

Quindi piedi fermi, o che saltellano, e le mani al cielo, con l’avambraccio che si muove su e giù e il palmo della mano unito, come il saluto degli Apache…

 

È importante rilevare questo fenomeno?

Volendolo trovare, un qualche significato simbolico potrebbe anche scappare fuori.

E anche se non fosse particolarmente interessante, sarebbe comunque un importantissimo segnale che le fenomenologie giovanili sono sotto osservazione e non solo per fini commerciali, ma anche perché semplicemente incuriosiscono.

La cosa strana è che mentre sui balli etnici c’è una letteratura avanzatissima, al contrario, sulle nuove dinamiche espressive della musica nella nostra contemporaneità, nessuno pare sia interessato.

E così quando i giovani entrano nella sfera della cronaca e dell’emergenza, continuiamo a trovare osservatori ed esperti impreparati, o fermi a qualche decennio fa.

 

Comunque, per uno come me che di libri di antropologia forse ne ha letti due (di cui uno sicuramente lasciato a metà), questa modalità di ballare che dà meno peso al contatto con il terreno, potrebbe benissimo essere specchio di una necessità di “sollevarsi”.

Forse dalle responsabilità?

D’altronde oggi, chi sta dando opportunità di responsabilità a chi ha meno di 35 anni?

 

24 Agosto 2013

 

 

 

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solo se serve

Non scopro certo nulla di nuovo se sentenzio che una delle sfide più grandi che abbiamo di fronte è quella che riguarda un possibile sviluppo senza crescita.

Il ritornello è sempre quello: il nostro stile di vita deve essere inderogabilmente più sostenibile e dobbiamo dare uno stop al modello che prevede la crescita infinita.

Ho letto Bauman.

Ho letto Latouche.

Ho ascoltato Stefano Zamagni.

Ho clickato anch’io MiPiace e ho condiviso “il discorso più bello del mondo” di Josè Mujica, il Presidente dell’Uruguay.

Ho letto qualche capitolo sulla regola di San Benedetto.

Seguo la Critical Mass

Sto insomma preparandomi il terreno per quel giorno in cui succederà il grande fatto: ovvero quando l’essere umano comincerà a bere la Coca-Cola solo quando avrà sete.

 

Credo che quell’atto lì, potrà essere identificato come il segnale di un passaggio chiave verso un diverso modello di approccio al consumo.

Da lì in poi, tutto cambierà…

Bere la Coca-Cola solo se si ha sete… comprare un telefono nuovo, solo se l’altro è inutilizzabile… acquistare una casa solo se ci vado ad abitare…

Tutto ciò non avrà a che fare con la rinuncia: si tratterà di avere un approccio culturale diverso.

È un po’ come se qualcuno mi chiedesse perché non mi cucino i gatti che vivono con me…

Semplice: perché non mi passa neanche per la testa e non è un argomento.

 

Qualche mutamento importante, in questo senso, lo stiamo già avvertendo: il mercato dell’auto è in crisi anche perché noi (cioè il mercato) abbiamo deciso che, per un bel po’, invece di comprare la macchina nuova, ci sta bene quella che abbiamo già.

 

Il principio dominante, quindi, sarà: “solo se serve”, “solo se è utile”.

E la nostra soddisfazione non sarà subordinata solo al consumo (a volte banale e quindi inutile) delle merci.

 

Sviluppo senza crescita, quindi.

Qualcuno, o meglio, qualche patacca come me si chiederà: ma ci si divertirà uguale?

Credo proprio di sì.

Basta entrare nella logica – come dice Josè Mujica – per cui non è povero chi non ha nulla, ma chi ha bisogno di comprare tutto.

 

Il passaggio ha a che fare con il nostro approccio culturale: i modelli cambiano se l’estetica dominante cambia.

 

A proposito di estetica dominante…

 

Mi è sempre piaciuta la descrizione che ha dato Andrea Pollarini in merito alla differenza tra Tamarro e Coatto.

Ovvero: mentre il Coatto è consapevolmente “periferico”, brutto, rassegnato nel suo stile ai margini, il Tamarro ha la consapevolezza di far parte dell’estetica dominante, si vede bello e si sente destinato ai vertici della giungla che può solo premiare i migliori a sopravvivere.

 

Ieri, in un suo pezzo, Gramellini è stato, come suo solito, particolarmente efficace.

Il tema era l’arresto di Corona, il quale, con i Tamarri ci azzecca un bel po’.

 

Scrive Gramellini: “Corona ha aderito in toto al sistema a cui appartiene, fino alle conseguenze più parossistiche”.  Corona ci induce “a rivalutare le conquiste materiali della società dei consumi”. E “ce le rivela per quello che sono: fiori sfavillanti nel vuoto, destinati ad appassire se non ci decidiamo a riempire quel vuoto”.

 

L’arresto di Corona può rappresentare la fine di quell’estetica dominante.

Per accelerare il processo, forse servirebbe un gesto eclatante…

E io ho un’idea: proporrei un monumento al Tamarro.

Fossi il Sindaco di Riccione, lo commissionerei (spending review permettendo) a Cattelan: sarebbe il segno della fine di un’epoca.

 

25 gennaio 2013

 

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Club Culture, la Frontiera

C’è stato un momento della mia vita in cui ho creduto di essere più avanti della vita che stavo vivendo.

Posso dire che ho visto il mondo andare più lento di come la pensavo e di avere tutti i giorni la sensazione che grazie a me, questo mondo marciasse ad una velocità superiore.

 

Vera Bessone, del Corriere di Rimini, mi ha chiesto “Dov’è finita la Riviera di Club Culture?”, alla luce del libro di Pierfrancesco Pacoda (“Riviera Club Culture” edito da NdA) uscito poco tempo fa.

Per affrontare l’argomento sono partito da come mi sentivo nel delirio dei “miei” anni 80.

Quel “mio” decennio (il decennio che ho sentito più mio della mia vita) è stato caratterizzato soprattutto da un grande individualismo.

Era, ed è stato, un individualismo conformista.

Ho ragione di credere che sia stato questo aspetto a rappresentare l’humus ideale affinché il divertimento notturno, con tutto il suo contorno, diventasse un’estetica dominante.

 

Era questa la vita che sognavo da bambino: un po’ di Apocalisse, un po’ di Topolino…”.

Siamo stati in tanti ad inventarci un lavoro partendo dalla nostra passione: per me era la musica (ho iniziato organizzando concerti rock), per poi scoprire che in realtà ciò che mi stimolava era la comunicazione e quella cosa che poi ho imparato si chiamasse Marketing.

A volte mi rivedo… Ragazzo di 20 anni o poco più, insicuro e imbranato, che comunque tenta una nuova strada…

E inizia a fare impresa con quello che gli piace, firmando contratti con artisti, facendo opinione nel suo settore, vedendo il suo nome sui giornali.

Questo in Italia allora poteva succedere: se eri giovane, con qualche buona idea, avevi delle chance.

 

È nata negli anni 80 quella che qualcuno inizialmente chiamò “il Nightclubbing” e successivamente “la Club Culture”.

Ossia – provando a dare una definizione – quell’estetica generata dal divertimento notturno, in grado di influenzare la quotidianità.

 

Sia chiaro: il nostro territorio l’ha sempre subita, cavalcandola controvoglia e senza alcuna strategia.

Poi quel fenomeno è diventato il Divertimentificio…

Già, qualcuno l’ha decifrato anche così.

Sarò impopolare, ma quel fenomeno rappresenta ancora la più convincente immagine (non dico la migliore, ma la più convincente ed efficace) che la nostra Riviera abbia saputo offrire, dopo il turismo balneare di massa.

Poi, se quel modello è stato “ufficialmente” abbandonato (senza che mai sia stato ufficialmente sposato), non significa che ancora non incida, anzi…

Ma questo è un altro discorso.

 

Venendo al nostro – “dov’è finita la Riviera di Club Culture” – come tutte le cose, se non le contestualizzi, ti ritrovi con un’analisi monca.

Ovvero, se leggi oggi la Club Culture attraverso lo stesso approccio con cui l’hai vissuta negli anni 80 e 90, fai fatica a cavarci fuori qualcosa.

 

La Club Culture di allora della nostra Riviera è riuscita ad essere anche subcultura, producendo contenuti (e prodotti) capaci di condizionare la contemporaneità.

In quella contemporaneità la nostra Riviera è entrata come un ariete.

Ricordiamoci che, se la Romagna (Rimini) ha inventato il turismo di massa, dagli anni 80 in poi, grazie al suo divertimentificio (con Riccione in testa) ha ufficializzato il turismo giovanile di massa.

Poi l’Italia si è fermata.

E così si è fermato anche quel certo fermento che affiancava l’industria del loisir.

 

Oggi la Club Culture vive in una rete globale internazionale, al cui interno è presente qualche nostra eccellenza nostrana, ancora in grado di intercettare ed interpretare linguaggi e codici delle nuove generazioni (sia di clienti, che di artisti).

 

Oggi la Club Culture ha sempre meno a che fare con la discoteca.

La fine degli anni 90 ce l’aveva fatto già capire: chi cercava in quel mondo ispirazione, era obbligato a bazzicare non soltanto i locali di Ibiza, ma anche – e soprattutto – le “nuove” spiagge, o certi strani ristoranti (il Buddha Bar?), o anche semplici barettini sugli scogli (il Cafè del Mar?).

Ma soprattutto quel “sentiment” lo si intercettava nei grandi eventi, come la Love Parade di Berlino e la Street Parade di Zurigo, oppure gli eventi Cream, Global Gathering o altri (confesso: non ne ho mai visto uno), figli più di quell’estetica Rave che dagli anni 90 ha cercato di far uscire quella subcultura dai limiti del Club.

 

Oggi lo sviluppo di tutti quei contenuti nati negli anni 80 e 90, sfocia in eventi che ancora in Italia non riusciamo ad immaginare, per motivi anche culturali.

Manifestazioni come il Tomorrowland e Kazantip, in un certo senso, rappresentano la Frontiera di quel sentiment che la Club Culture ha generato.

La Frontiera…

Noi, nella nostra Costa Est, lo siamo stati.

Grazie proprio alla Club Culture.

Grazie alla Baia degli Angeli di Giancarlo Tirotti e alla Baia Imperiale poi, all’Altro Mondo di Gilberto Amati prima e di Galli e Bevitori poi, al Paradiso di Gianni Fabbri, all’Embassy di Semprini, al Lady Godiva di Mauro Varriale, al New York di non ricordo chi, all’Aleph di Maurizio Innocenti, allo Slego di Garattoni, Corbelli, Fiori, Rinaldini, Bruschi e poi di Thomas, all’Insomnia della Nico, al Lex di Andreatta, al Bandiera Gialla di Bibì Ballandi, al Barcelona di Lucas Carrieri, al Cellophane sempre di Lucas Carrieri, al Ripadiscoscesa della Patty Bordoni, al Velvet di Thomas, al Pascià di Fabbri, Ricci e Billy Bilancia, all’Ethoes, al Vae Victis e all’Echoes di Tantini e Maurizio Monti, al Byblos della famiglia Gennari, alla Villa delle Rose di Dino e poi dei Buffagni, al Peter Pan di Gianni Nisticò e Artemio, al Prince di Marisa Lagrecacolonna, all’io di Willi e Italo, al Carnaby di Ennio, Alfredo e Giorgio, al Meeting di Ivano, al Rockhudson’s, al Ku e all’ECU, alla Mecca di Andrea Brighenti, al Life di Agostini, al Blow Up di Zanza e, ovviamente, al Cocoricò di Osvaldo e dei Palazzi.

Con il Walky Cup in Aquafan di Cecchetto prima e di Linus poi, concluderei questa carrellata, dove accanto ai locali che sono riuscito a ricordare, ho affiancato i personaggi che maggiormente hanno contribuito fattivamente alla creazione di ognuno di questi miti.

A questo scenario è sempre mancata un’analisi, che aiutasse – noi operatori – a capire e a capirci: insomma, a formarci e a renderci consapevoli che ciò che avevamo in mano non erano semplici locali da ballo.

Ma questo è un altro discorso, che ora, come prima, pochi hanno intenzione di ascoltare.

 

21 Settembre 2012

 

 

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Navi in porto e ansie democratiche

C’è quella famosa frase – spesso citata da Fabio Volo in radio – che ci fa riflettere sul fatto che sebbene le navi in porto siano al sicuro, comunque sono state costruite per andare incontro alle tempeste dei mari più burrascosi.

Ognuno, in questa frase, può ritrovare la metafora della vita che più gli aggrada.

Fatto sta che in questi tempi di crisi, prima di far uscire dal porto la nostra nave, avvertiamo in maniera più accentuata l’esigenza di volare bassi.

Però alcuni economisti, psicologi e psicoterapeuti in genere (anche quelli che trovi al bar, laureati sul campo) ti avvertono del rischio recessione, consigliando, come cura migliore, il reagire… magari volando alti.

 

Ma che significa volare alto?

Non certo fare cose che non ti puoi permettere, sennò, che bel consiglio sarebbe?

Direi piuttosto che significa dare maggiore, anzi, massima attenzione al sé, anche in relazione agli altri.

Nella migliore delle accezioni, può voler dire contribuire affinché la tua positività ed il tuo entusiasmo contaminino una comunità di persone.

 

Qualche anno fa mi ero divertito a dire che “gli Italiani non sono felici”, facendolo diventare lo slogan dell’Aquafan di Riccione.

D’altronde la situazione che avvertivo era chiara: ovunque ti potessi trovare (dall’aperitivo, alla passeggiata sul Corso) le persone avevano solo bisogno di parlare dei propri problemi, magari semplicemente elencandoli.

Con il tempo mi sono reso conto che questi elenchi acquisivano sempre più la caratteristica di perdere l’ordine delle priorità.

Se provate a notare, oggi siamo arrivati al punto che è avvertibile una certa “angoscia democratica” (non ricordo dove ho letto questo termine), per cui il problema che su Rai Uno le fiction fanno cagare, è equiparabile alla possibilità di rimanere senza lavoro.

 

Questa angoscia democratica è tipica di uno dei riti del nostro tempo, l’Happy Hour, dove i discorsi si susseguono random, senza ordine di importanza.

 

È possibile che la cultura dell’Happy Hour ci abbia condizionato a tal punto?

 

Una cosa è sicura: l’Happy Hour (come scrisse benissimo Marino Nioli su Repubblica) ha contribuito a trasformare alcune zone delle nostre città, dove strade e piazze sono diventati “bar diffusi”, “siti collettivi inattesi”.

Il paesaggio urbano è stato trasformato da quell’unione tra “drink e link”, attraverso relazioni di “un’umanità a banda larga”, “una rete in carne e ossa gettata nella polis”.

 

Il termine Happy Hour nasce negli anni 20 per indicare l’ora di intrattenimento concessa ai Marines imbarcati.

All’inizio degli anni 60, entra nel linguaggio comune dopo un articolo del Saturday Evening Post dedicato alla vita militare.

Solo negli anni 80 negli USA e in Gran Bretagna nasce l’uso di accompagnare il drink con stuzzichini, al fine di ridurre l’ebbrezza.

Happy Hour oggi è il rito che avviene più tardi dell’aperitivo, prima della cena: “è il vespro della regola globale, la giusta ricompensa dell’hora et labora quotidiano”.

 

Sempre Nioli ricorda come la nostra socialità sia passata dai Fori e dalle Agorà del mondo antico, alle piazze dei Comuni, fino ai Passages e alle Terrasses dei Caffè nella Parigi del XIX secolo, diventati i templi di un capitalismo che ha fretta, ma non rinuncia a vedere e farsi vedere.

 

Farsi vedere, appunto.

Quindi mostrarsi, vestirsi, accessoriarsi…

Ma questo come è opportuno che avvenga al tempo della crisi?

Può valere anche in questo caso la strategia, per cui “volare alti” sia la tecnica di sopravvivenza più efficace?

È proprio questo il momento per sfoggiare le piume più vistose (a proposito, avete visto quanti cappellini ai matrimoni!) o per scegliere dal sarto il tessuto “più migliore” per presentarci all’Happy Hour con i giusti segnali di positività ed entusiasmo?

C’è chi dice sì.

E non è detto che abbia torto.

Un Happy Hour felice (stando attenti al tasso alcolico) è, infatti, alla portata di tutti.

Come dice Ligabue, “Sei già dentro l’Happy Hour, vivere, ridere costa la metà”.

 

Probabilmente in questo tempo di crisi, troveremo finalmente necessario dare risposta alla fatidica domanda del Liga: “Quanto costa fare finta di essere una star?”

 

 

 

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la Domus del Bagnino

Riccione, 1 Aprile 2009

Il ritrovamento di ieri pomeriggio in Aquafan, dobbiamo confessarlo, ci ha spiazzato, e non poco.

E più prendiamo possesso dell’avvenimento, più scopriamo che il mosaico ritrovato ha in sé una serie di misteri….

In primo luogo, ci stiamo ponendo la più ovvia delle domande: è uno scherzo o no?

In fondo in fondo, speriamo di sì: se il mosaico risultasse originale, si aprirebbe uno scenario che non abbiamo ancora osato immaginare.

Nel caso di uno scherzo, tra l’altro figureremmo vittime della celebre legge del contrappasso, per cui siamo proprio noi a subire ciò che solitamente procuriamo ad altri.

Comunque, la domanda vera che non ci fa dormire è: se è una burla, chi è l’autore?

Mano a mano che analizziamo la cosa, affiora una strategia complessa, un disegno sottile, figlio di una azione da veri professionisti: lo scavo, la profondità, ma soprattutto, il contenuto del mosaico stesso.

Il mosaico ritrovato, infatti, una volta analizzato con calma, rappresenta un tema addirittura pertinente con Aquafan.

Come si può notare anche dalle foto apparse sui quotidiani locali, dalla grande testa del personaggio rappresentato, quella che a prima vista sembrava una lunga lingua (il nostro Silvano Balducci l’aveva interpretata come una lunga scia di vomito…) in effetti è un fiume in discesa.

Ma la cosa incredibile è che giù da questo fiume scendono delle persone… così come succede con gli scivoli di Aquafan !

Se è uno scherzo, l’hanno proprio pensato bene.

Da persona che si occupa di comunicazione, la tentazione di cavalcare l’onda – giusto  per rimanere in tema – è troppo forte.

Quindi provo ad immaginare questa Domus del Bagnino,  controaltare riccionese della Domus del Chirurgo dell’Ariminum di duemila anni fa.

Oppure, provo ad ipotizzare, come ha fatto qualcuno di noi, che il primo proprietario del parco, quando ha acquistato il terreno, ha proprio costruito l’Aquafan prendendo spunto dal ritrovamento casuale del mosaico, che poi avrebbe opportunamente coperto e nascosto.

Comunque sia e comunque andrà – ovvero scherzo o non scherzo – la vedo già l’area delimitata, con tanto di copertura e lastra di cristallo a protezione, con i nostri turisti in fila con il costume, ad ammirare tra uno scivolo e l’altro il tratto tardo romanico bizantino, o le magie del Photoshop…

So già che non mancherà la brochure che illustrerà la storia del dio Aquafan, dalla cui bocca nasce il fiume da cui si scivola felici.

Una sorta di metafora, su come il linguaggio del divertimento, che nasce dalle labbra dei saggi, possa rendere in eterno le persone più felici e contente. 

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Videogiochi rilassanti

 

 

Più di un anno fa, era il dicembre del 2007, avrete letto anche voi che un gruppo di ricercatori irlandesi ha messo a punto un videogioco in cui si vince solo se ci si rilassa.

Il gioco consiste nel far volare un drago: più si sta tranquilli, più il drago vola veloce.

Il tutto funziona attraverso sensori applicati alle dita della mano, chiamando in causa il galvanismo della pelle, cioè la capacità di trasmettere elettricità, la cui intensità dipende appunto dal grado di rilassatezza o tensione.

Parlare di videogiochi rilassanti è un po’ come giocare con le dicotomie: di solito i videogame sono sinonimo di adrenalina.

Ma la cosa non può spaventare.

Anzi…

Proviamo a pensare alle declinazioni possibili…

 

Per prima cosa, applicherei questo sistema al campanello di casa mia: tu suoni e se sei stressato, te ne torni a casina tua.

Ovviamente proverei anche ad applicarlo all’ingresso dei locali pubblici: ci troveremo discoteche senza risse e ristoranti dove la pausa pranzo non potrà essere frenetica. Ma sicuramente la declinazione di quanto hanno inventato i ricercatori irlandesi, potrebbe avere incredibili risposte sul piano turistico.

In spiaggia una selezione di tal genere potrebbe garantire la scomparsa di tutte quelle persone che hanno la compulsione della telefonata, i quali, poveretti, abituati all’adrenalina dell’ufficio, cominciano a chiamare tutti gli indirizzi in rubrica perchè non sanno stare senza fare niente.

Oppure pensiamo a quei territori magici, dove la tranquillità è il motivo che produce turismo.

Non so… il Maine, la Cornovaglia, la Bretagna, le campagne umbre con i percorsi di San Francesco….

Insomma, se sei stressato non entri!

Ma qualcuno potrebbe dire: “ma appunto perché sono luoghi rilassanti, io, persona stressata, ho bisogno più di altri di viverli”.

Bene: a tal proposito, si potrebbero attrezzare spazi di decompressione.

Pensate che figata: prima di entrare ad esempio in quei paesini stupendi in mezzo alle crete senesi, avere l’obbligo di decomprimersi…

Musica rilassante, profumi, sapori, massaggi…

 

Però…

Cavolo! Se cominciassero i commercialisti, gli avvocati, gli uffici postali ad esigere i test per la rilassatezza – altrimenti non ti ricevono – ma ci pensate in che casini ci metteremmo?

 

 

 

17 gennaio 2009

 

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Il telefonino dei sogni

 

Sarò grato finché campo all’amico Lucio per avermi mostrato il telefonino dei miei (nostri) sogni.

Si chiama pomegranatephone (telefono melograno) ed è in grado di fare tutto.

Quando dico tutto, intendo proprio tutto!

Andatelo a vedere sul sito web: è un’esperienza unica (http://www.pomegranatephone.com/).

Guardate ogni sua funzione, dalla prima all’ultima, e mi raccomando: non perdetene una!

Una volta visto il tutto, clickate su I’ve seen enough (ho visto abbastanza) e capirete il motivo per il quale questo telefonino è nato: comunicare un territorio…

…Precisamente la Nuova Scozia, l’affascinante provincia canadese che affaccia sull’Atlantico.

 

Dai, che aspettate, continuerete a leggere dopo: clickate qui e correte a vedere il tutto.

 

 

Incredibile, vero?

Tra le diverse cose che mi hanno stupito in quello che ho visto, in primis c’è la convivenza tra l’idea creativa di alto linguaggio tecnologico e il committente, ovvero la Nuova Scozia, territorio ad alta vocazione naturalistica.

Una bella operazione di marketing, particolarmente creativa.

E’ proprio vero: il marketing si concede ogni possibilità, ogni connubio.

Eppure a volte è proprio in nome del marketing che alcuni collegamenti si vogliono ritenere inappropriati.

Poi ogni tanto notiamo che accade che il successo e la forza di una campagna di comunicazione (e di conseguenza del prodotto che promuove) sono dovuti a scelte coraggiosissime, sulla carta strategicamente non opportune.

Sarò esagerato, ma possiamo considerare il marketing come una scienza esatta solo se siamo pigri.

Quando invece lo facciamo diventare l’arte del possibile, allora riusciamo a trovare anche il gusto di lavorare.

E la vita appare più bella.

 

7 Gennaio 2009

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I pauarpoint hanno rotto le palle

 

Sporcarsi le mani…

 

Come non mai, oggi bisogna “stare sul pezzo”.

 

Soprattutto per coloro che hanno piacere, interesse o bisogno di capire come gira il mondo, sporcarsi le mani con la realtà di tutti giorni è oggi un esercizio assolutamente indispensabile.

Un esercizio però da svolgere individualmente e direttamente in prima persona.

Senza demandarlo a nessuno…

Neanche ai Powerpoint.

Siamo soffocati dai powerpoint…

 

…tutti densi di informazioni, contenuti, elementi, charts, grafici a torte, sondaggi…

…tutti realizzati con massimo rigore, tutti necessariamente visionati con grande rispetto.

Oggi se vogliamo dire qualcosa di importante facciamo un powerpoint.

 

Quindi occhio: se qualcuno si cimenta in un ppt, è segno che sta per rivelare notizie determinanti…

E così dalla mattina alla sera produciamo e visioniamo powerpoint come fossero le uniche finestre sulla verità…

 

…in un turbine di incontri, meeting, convegni…

E mentre nei nostri uffici, le slides avanzano, lampeggiano, si dissolvono, entrano veloci e si colorano, là fuori il mondo va avanti con le sue verità…

 

 

‘Sti powerpoint hanno rotto le palle.

 

Per carità, Microsoft ha creato un programma bello, pratico e utile.

 

Quindi, in questo caso,  pace a Bill Gates, anzi: grazie tanto!

I powerpoint probabilmente sono nati per fare bella figura con il Direttore Generale o l’Amministratore Delegato: “Sai, con delle belle slaids, il capo capisce meglio…”.

 

Il guaio è che a volte gli uffici marketing si dedicano a produrre bellissime presentazioni, piuttosto che a concentrarsi sul progetto in sé.

 

C’è chi giura che i progetti sbagliati nascono proprio dai powerpoint più belli, capaci di raccontare bellissime verità, che non corrispondono però a quello che il mercato richiede.

 

Sbagliare le strategie troppo spesso corrisponde a mettere le aziende in crisi.

Quello che scriviamo e leggiamo nelle slides non è sempre verità…

 

Le cose le capiamo a volte molto più facilmente (e soprattutto molto prima) se invece di stare chiusi in ufficio, andiamo ad annusare in giro cosa succede nel mondo.

 

E non è mica sempre necessario prendere 10 aerei al mese…

A volte basta parlare un po’ più con gli amici di tuo figlio, ascoltare la gente sull’autobus, dialogare con il taxista, chiacchierare con il parcheggiatore della discoteca, fare due gags con gli amici all’aperitivo…

 

O meglio ancora, andare a fare la spesa, partecipare alle riunioni di condominio, guardare Canale 5, partecipare alla vita di Parrocchia, frequentare le sale giochi, passeggiare per i Centri Commerciali…

 

Ovvero, cercare di vivere la tua vita in maniera accettabile e allo stesso tempo dare un’occhiata a come altri riescono a vivere la propria.

 

Anche così, a mio parere, significa sporcarsi le mani (e magari si diventa anche più tolleranti).

Però tutto questo è difficile: non siamo dotati di una spiccata capacità di ascoltare.

 

Anzi, citando Gaber, vorremmo essere Dio, per poi ritirarci in campagna, “perché la lontananza è l’unica vendetta, l’unico perdono”.

Questa frase è bella: pensate se Gaber, invece di scriverla, ci avesse fatto un powerpoint…

 

 

Buon 2009 a tutti!

30 dicembre 2008

 

 

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Gli italiani non sono felici

 

Questa volta il segnale debole che ho pensato di riportare nel blog, riguarda proprio Aquafan, ovvero il luogo che da 12 anni rappresenta la mia quotidianità.La campagna pubblicitaria del nostro Parco, di questa estate 2008 è un po’ particolare.

Il claim cita “Gli italiani non sono felici”.

Credo quindi di fare cosa gradita nel riportare il “pensiero” ed il percorso che ci ha portato a tale scelta.

In basso troverete anche l’immagine del poster 6×3 metri che verrà affisso qui in Romagna e in qualche altro territorio.

Mentre il video virale che abbiamo dedicato alla campagna, lo troverete al seguente indirizzo:

http://www.youtube.com/watch?v=P4o5Sx7SnJE

Pier

GLI ITALIANI NON SONO FELICI

Il marketing spesso induce ad utilizzare la provocazione di messaggi forti al fine di ottenere risultati di visibilità.

In 22 anni di attività, Aquafan non ha mai intrapreso questa strada.

Nella sua comunicazione, Aquafan trasmette positività, solarità e a volte ironia (nonché autoironia).

La campagna “Gli italiani non sono felici” rappresenta quindi un’eccezione e, anche se nasce da un ufficio marketing (quello interno di Aquafan), crediamo contenga qualcosa in più di una fredda strategia.

Crediamo che il ruolo di un territorio come il nostro e di una struttura come Aquafan sia particolarmente importante: far stare bene le persone, contribuire a renderle felici, non è cosa da poco.

Ma avvertiamo una necessità: probabilmente, oggi più che mai, per fare al meglio il nostro lavoro occorre acquisire la consapevolezza dello scenario in cui si opera…… e lo scenario ci mostra che il pubblico a cui ci rivolgiamo si sente sempre meno felice.

Quanto detto non è una rivelazione: è un fatto noto, non stiamo scoprendo nulla.

L’ha capito persino la politica, che da destra e da sinistra, ha lanciato mille segnali di quanto sia necessario poter/dover cambiare le cose per uscire da questa fase.

Abbiamo voluto questa campagna perché abbiamo la responsabilità del nostro ruolo di osservatorio dei segnali che arrivano dal mondo.

Noi non abbiamo la capacità, né gli strumenti, né il ruolo per capire e valutare il reale grado di felicità degli italiani: noi “ascoltiamo” che la percezione che avvertono è quella.

In palestra, dal parucchiere, durante il rito dell’aperitivo… il vociare delle persone è fatto di pensieri e parole sempre più “pesanti”, anche quando in ballo non ci sono problemi concretamente seri.

Chiamiamolo malessere.

Per noi che vendiamo il divertimento, quest’anno è stato difficile pensare ad una comunicazione che in maniera disinvolta potesse “vendere” serenità e felicità in formato 6×3 oppure 70×100.

“Gli italiani non sono felici” vorremmo fosse interpretato come un messaggio rivolto al nostro pubblico, ovvero: ce la metteremo tutta per farvi stare bene.

Ma vorremmo anche che “Gli italiani non sono felici” venisse recepito anche come un avvertimento…… un avvertimento soprattutto verso noi stessi.

Chi paga il biglietto in Aquafan sappiamo che trascorrerà una giornata indimenticabile, che ricorderà con piacere.

Ogni estate ci impegniamo affinché la nostra offerta di divertimento sano sia sempre più all’altezza.

Questa è la nostra responsabilità: non deludere le aspettative verso chi riversa su di noi l’opportunità di trovare benessere.

E così, attraverso l’immagine positiva che Aquafan sa emanare, abbiamo sentito il bisogno di urlare che “Gli italiani non sono felici”, con il fine di affermare che noi faremo la nostra parte.

31 maggio 2008

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Treno, privacy e pisello

 

Per lavoro, o magari casualmente, ci siamo più volte imbattuti nelle reti della famosa Legge sulla Privacy.

Per carità, non voglio entrare nel merito dove sia giusta o meno.

In questo senso posso solo dire che, nel momento in cui la mia posizione è quella del cittadino passivo, la trovo opportuna.

Non avverto gli stessi sentimenti quando invece mi pongo dal punto dell’impresa.

Comunque, ritengo la Legge sulla Privacy un segno di una società sempre più civile.

 

Un po’ in tutto il mondo, le tecniche di tutela dei propri interessi privati stanno diventando sempre più raffinate.

Non vorrei sbagliarmi, ma dall’elusione fiscale (sempre più complessa), alle abitudini sessuali (a volte inconfessabili), la nostra necessità di protezione mi sembra sia particolarmente aumentata…

… finchè non si sale sul treno.

 

Quasi a dispetto di tutti gli studi che hanno portato a creare al legislatore cavilli complessissimi, sul treno la Privacy rompe tutte le barriere.

Durante i miei viaggi in prima classe, in mezzo a tantissimi uomini d’affari, è facile farsi un’idea di quale sia la situazione.

A volte sono stato tentato di prendere un po’ di appunti.

Lo scenario è interessante: in treno si parla di tutto, anzi, si rivela tutto a gran voce mentre si parla con il telefonino.

Persone che a gran voce si identificano lasciando e-mail e numeri di cellulare…

Trattative ai quattro venti, dove un albergo a Bellaria venduto con una caparra in nero di oltre 200 mila euro…

Strategie segrete diffuse per tutto il vagone, per cui a quel determinato capogruppo occorreva  smuovendogli contro proprio la sua corrente…

Esternazioni riguardo a dati di una ricerca del tutto improvvisati…

 

Mentre inizialmente credevo si trattasse di disattenzione ed ingenuità, pian piano mi è sorto il dubbio che dietro ci fosse altro.

E cioè la sciagurata voglia di avere una platea in ascolto.

L’identikit dell’esternatore medio è semplice: maschio, età tra i 35 e i 50.

La fascia perfetta di chi ha necessità di adottare strategie ai fini del cosiddetto prolungamento del pisello.

E’ un po’ come durante il rito dell’aperitivo in Centro, dove si sente spesso intonare “sai cos’ho fatto ieri sera”, “sai che macchina ho deciso di acquistare”, “sai con chi sono uscita ieri sera”, e via di seguito…

In treno è leggermente diverso: chi deve fare lo “sburrone” – come diciamo noi in Romagna – distribuisce consulenze professionali ad alta voce, elargisce cazziatoni con toni paterni risoluti, vomita esiti positivi di riunioni.

 

Chissà, probabilmente non ne sono consapevole, ma forse faccio parte anch’io di questa squadra: gente a caccia di prestigio nel vagone in prima classe, in un mondo in cui il “valore personale” sembra venga calcolato con parametri sempre più intollerabili.

Come tante altre cose, anche questo è il segnale di un malessere.

Ce la faremo mai ad uscire da questa fase?

Ma soprattutto, questa è una fase, oppure è diventata (o è sempre stata) una caratteristica nel nostro dna?

Potremmo nel frattempo lanciarci in un tentativo: ovvero provare a calibrare bene la differenza tra i significati di prestigio, consenso, notorietà.

Potrebbe essere l’inizio di un percorso.

Credo siano necessari tempi lunghi.

Speriamo nell’Alta Velocità.

 

 

 

20 marzo 2008

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Semplicità

Mi sento una persona poco adatta a parlare di semplicità.
Ma visto che sono un casinaro, è un po’ un mio standard entrare in ambiti non opportuni.

Come si può ben notare, l’essere umano post-moderno ha piacere, ma soprattutto avverte la necessità, di plasmare la realtà: quando è complessa ha bisogno di semplificarla, mentre quando è armoniosa cerca in tutti i modi di incasinarla.
Mi piace sempre sottolineare la nostra tendenza nel surfare nei nostri modi di vivere: in questo caso facciamo surf tra lo star bene e il complicarci la vita, tra lo star male e rendere le cose più semplici…

Banalizzando – come amo fare – potrei portare qualche esempio…

Nei campi di cotone del Sud, la vita era veramente dura… così nacque il Blues, un suono molto semplice.
Appena i neri migliorarono la loro condizione di vita, cominciarono a suonare il Jazz, e il suono cominciò ad essere assai più complesso.
Quando le metropoli hanno poi cominciato a mostrare tutta le loro difficoltà, prende vita l’Hip-Hop:semplice da capire, facile da comporre.

Un altro banale esempio…. Una volta risolto il problema della fame, abbiamo inventato la Nouvelle Cousine… per poi tornare ad apprezzare nei ristoranti alla moda la polenta e i fagioli bolliti.

Mantenersi in forma correndo non dovrebbe presentare derive di complessità: i miei amici della Nike mi hanno parlato dellojogging semantico

La situazione attuale ci vede insicuri, timorosi delle insidie, poco coraggiosi nel rischiare, poco lucidi per capire cosa fare: tutti sintomi di una situazione complessa.

Bernard Cova, nel suo libro Il marketing Tribale, cita la teoria del camion impazzito, per cui la società sarebbe un enorme camion lanciato a grande velocità, con il conducente sbalzato fuori.
Il conducente rappresenterebbe il Senso (nel senso più Cristiano del termine) che non avvertiamo più nel progresso, che comunque va avanti con le sue scoperte scomode (il nucleare, la biogenetica, etc).
Secondo Cova, il progresso sta correndo in avanti come per inerzia… e ognuno di noi avverte il bisogno di salvare il mondo.

Anthony Giddens, il filosofo musa ispiratrice di Tony Blair, ha elaborato la teoria del Secondo Moderno, per cui il concetto di progresso è mutato e non è più legato all’avanzamento delle tecnologie: diventa addirittura moderno l’atteggiamento di stoppare il cammino.

Per capire meglio il concetto, mi è servito l’esempio che ho letto sull’ex proprietario dell’Esprit che ha acquistato nella Terra del Fuoco in Cile, un territorio vasto come il Lussemburgo, pieno di larici millenari a rischio disboscamento.
Una volta acquistate quelle terre, con il diritto della proprietà privata (da sempre giudicata anti-moderna) si è avvalso della facoltà di fermare ogni azione dell’uomo: un atteggiamento da Ancient-Regime che però appare immediatamente un grande segno di progresso.

Questa è la riprova che c’è e ci dev’essere un nuovo modo con cui deve essere inteso il progresso dell’Umanità.

In questa situazione stiamo cercando di salvarci la vita costruendo tentativi di ri-radicamento, ad esempio rappresentati dallo Slow Food, dalle ideologie ecologiste e no-global.

Per convincerci di questo, possiamo notare notare alcuni evidenti “passaggi“: dalla libertà individuale alle community(pensiamo a Internet, il regno delle tribù), dalla libertà al legame, dall’universalità alla vicinanza (dal global al local), dall’innovazione all’autenticità (oggi ha più peso un telefonino innovativo o un formaggio artigianale?).

Tra i tanti paradossi che viviamo, ce n’è uno che mi ha sempre “affascinato”: ci crediamo liberi perché possiamo consumare un prodotto unico a nostra misura, eppure abbiamo bisogno della sicurezza di consumare tutti la stessa cosa.

Siamo arrivati a questo non certo per sbaglio…

Sempre citando Bernard Cova, probabilmente dopo che abbiamo raggiunto l’obiettivo di creare una società libera – dove davvero siamo in grado di realizzare e vivere la condizione di uomini liberi – ci siamo accorti che la situazione non è poi così entusiasmante.

E quindi abbiamo bisogno di correre ai ripari (riparo = protezione).

Sicuramente, in questa condizione, abbiamo più che mai bisogno di dare un po’ di ordine alle idee, cominciando a mettere ordine alle cose (come mi dice sempre un amico di Marrakesh).

Ed ecco come si arriva al bisogno di semplicità.

Una curiosità…
Ho fatto una ricerca su Google digitando la parola “semplice”, ed è venuto fuori un elenco di circa 41 milioni e 700 mila voci, con ai primi 3 posti:
semplice.it (viaggi last minute)
futurosemplice.it (onlus che si occupa di persone con problemi mentali)
ubuntusemplice.org (Ubuntu è un sistema operativo libero e gratuito).

A lato, dove Google vende pubblicità, non c’è nessuna inserzione: nessuno investe sulla semplicità perché nessuno la va a cercare?

Pier
1 Novembre 2007

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il Web Semantico

il Web Semantico: l’incoerenza ci aiuterà

Prendendo spunto a piene mani da un pezzo uscito un mesetto fa sul sito del Corriere della Sera a firma Hanay Raya, vorrei condividere con voi l’ultima idea di un personaggio importante del nostro tempo, Tim Berners-Lee, considerato l’inventore di Internet.

Quando Berners-Lee, giovane fisico inglese del CERN di Ginevra, presentò il progetto del World Wide Web (selvaggio mondo della rete, facendo eco ai pionieri dell’Ovest americano) erano i primi di Agosto del 1991.
In realtà, Internet esisteva da oltre vent’anni, con il nome di Arpanet: c’erano già le e-mail, i protocolli per il trasferimento dei dati come l’Ftp, si usava Telnet per collegarsi ai computer remoti…
Ma tutto questo era confinato in un mondo estremamente tecnico, universitario e industriale.
Fu con gli anni ’80 che Internet cominciò la sua crescita e nei ’90 la sua espansione.
Per essere quindi precisi, lo scienziato non ha inventato Internet, bensì il Web (la rete), ossia gli ipertesti Html con i quali visualizziamo le pagine e il protocollo Http, quello attraverso cui le possiamo raggiungere.
Il giovane Berners-Lee, insignito nel 2004 del titolo di Baronetto dalla Regina d’Inghilterra, ha inventato anche il primo Browser, che ci permette di sfogliare la pagine Html inserendo gli indirizzi Http.

Uscito dal CERN di Ginevra, ha trovato lavoro al MIT (Massachusset Institute of Technology) di Boston dove nel 1994 ha fondato il World Wide Web Consortium, conosciuto semplicemente come W3C.
Un’associazione senza fini di lucro che si basa su semplici indicazioni:
– il Web è unico perché è libero.
– chiunque può creare un documento e metterlo gratuitamente online.
– il W3C cerca di evitare che interessi di qualsiasi genere possano porre un freno a questa assoluta libertà.

La notizia è che il Consorzio sta lavorando da alcuni anni alla progettazione del cosiddetto WEB SEMANTICO, che già è stato etichettato come il futuro della rete.
Ci vorranno ancora degli anni prima che noi utenti ne vedremo la realizzazione, tuttavia questa nuova idea sta già facendo discutere.
Si tratta di una visione completamente nuova dell’information technology e si basa sul concetto che ognuno (ogni creatore di contenuti) possa determinare una propria ontologia delle informazioni, determinare cioè a livello informatico gli attributi di una richiesta, sia essa un sentimento, un oggetto, un’idea.
Dopo il mondo interconnesso, avremo l’individuo intercollegato, capace di creare mondi e influenzare quello (o quelli) degli altri.
Non una verità ma molte, non un’opzione di ricerca generalista, ma un pullulare di specificità.

Avremo computer in grado di capire i dati che utilizza, così che i dati sul Web possano essere definiti ed utilizzati non soltanto per la loro “visualizzazione”, ma per la loro piena automazione, integrazione e riutilizzo.
Si prospetta un futuro in cui potremo fissare una visita medica alla mamma anziana utilizzando alcuni agenti semantici (programmi in grado di esplorare ed interagire autonomamente con i sistemi informatici per ricercare informazioni) capaci di capire la patologia, contattare i centri in grado di curarla e di richiedere un appuntamento, salvo poi lasciarci la decisione di confermare.

Il web, come si presenta oggi, richiede troppo sforzo e troppo impegno.
Abbiamo bisogno di strumenti di lavoro più progrediti, per facilitare e velocizzare la navigazione attraverso il labirinto degli innumerevoli documenti consegnati alla pubblicazione multimediale.
Per il futuro, il Web Semantico si propone di dare un senso alle pagine web ed ai collegamenti ipertestuali, dando la possibilità di cercare solo ciò che è realmente richiesto.

Non sempre la Rete ci porta dove ci serve: scorrere una lunga quantità di elenchi alla ricerca dell’informazione desiderata è ormai quotidianità, soprattutto quando la ricerca interessa un termine piuttosto comune.
Con il Semantic Web possiamo aggiungere alle nostre pagine un senso compiuto, un significato che va oltre le parole scritte, una personalità che può aiutare ogni motore di ricerca ad individuare ciò che stiamo cercando.
Tutto questo non in virtù di sistemi di intelligenza artificiale, ma di un linguaggio gestibile da tutte le applicazioni, di un’informazione strutturata e di nuove relative regole di deduzione.

La cosa comunque straordinaria, da Tim Berners-Lee sottolineata, è che uno degli elementi fondamentali del web semantico sarà la compresenza di più ontologie.
Quindi, se si vuole un sistema dinamico in grado di raffinarsi e funzionare su scala universale, bisognerà per forza accettare una certa dose di incoerenza.

Che figata…

La ricerca di informazione diventa così sinonimo di viaggio verso territori estranei, diversi, a volte fastidiosi.
Chi crede che la verità sia solo una, è servito.

Grazie al Web Semantico, possiamo quindi affermare che è terminata la fase in cui asserire che il Web 2.0 e i Social Network sono il futuro: semmai rappresentano “solo” il presente e al limite possono “accontentarsi” di rappresentare l’eco di un mondo a venire, dove ricercare significherà accettare (senza più accorgercene) di affacciarci verso pensieri diversi e posizioni lontane.
E’ forse anche per questo che la rete fa così paura?

settembre 2007

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Verità comode

Rimini, 25 agosto 2007

Interrogarsi sul significato di verità è un esercizio che dovrebbe diventare obbligatorio.
Il tema è complesso, di quelli in cui si arriva a parlare di tutto… e di niente.
E’ un tema su cui non mi sento pronto.
E probabilmente non lo sarò mai.
Ma se per verità, parliamo della verità degli altri, beh, allora lì sono un campione, come probabilmente tutti.

Il Meeting per l’Amicizia dei Popoli, l’evento che si svolge ogni fine agosto a Rimini, quest’anno tocca proprio questo argomento.
“La verità è il destino per cui siamo stati fatti”.

Obiettivo del Meeting è porre l’attenzione sulla sfiducia di oggi circa la possibilità di conoscere la verità, con la conseguenza di una vita mancante di certezze, quindi opaca ed esposta a violenza e sopraffazione.

Il concetto di verità mi rimanda sempre a quello di certezza.
Non so se l’avete notato, ma i prodotti più ricercati al mondo, in questi decenni, sono proprio le certezze.
Il guaio è che sono anche i più venduti.
La politica vende certezze… e siamo in tanti a comprarle.
I consulenti economici vendono certezze.
Anche chi vende biscotti ha bisogno di affiancarne qualcuna, compresa nel prezzo.
Pure Wanna Marchi l’ha fatto e sembra che continuerà a farlo.

Dal sito web del Meeting, estraggo le parole del Santo Padre Benedetto XVI, durante un dialogo avvenuto con gli studenti dell’Università Lateranense: “Se si lascia cadere la domanda sulla verità e la concreta possibilità per ogni persona di poterla raggiungere, la vita finisce per essere ridotta ad un ventaglio di ipotesi, prive di riferimenti certi”.

Citando sempre il sito del Meeting:
“La nostra epoca è profondamente segnata da correnti di pensiero che, non riconoscendo più la realtà nella sua oggettività, come qualcosa che si pone davanti all’uomo e che l’uomo può riconoscere, pretendono che sia la ragione a dare consistenza alla realtà.
La sola alternativa è che la verità sia qualcosa o qualcuno che all’uomo può accadere di incontrare, qualcosa che succede: unavvenimento per l’appunto”.

L’altro giorno passeggiando per Rimini, sono incappato, appunto, in un avvenimento: questo manifesto che vi allego.
Mi piace pensare che, attraverso un gesto di sofferto coraggio, l’abbiano affisso proprio i due personaggi ritratti nella foto: altrimenti mettere in luce una verità scomoda solo per gli altri, siamo capaci tutti.

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Second Life? Un bluff (per ora…)

Rimini, 20 agosto 2007

Il marketing dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, di non essere una scienza esatta.
Il marketing vive di creatività, rivoluzioni, stravolgimenti.
Ma, secondo alcuni, molti uffici del settore operano investendo energie economiche ed umane semplicemente con il fine di esistere.

Il marketing è nato il giorno dopo la scoperta del posizionamento di mercato: una volta analizzato il rapporto tra domanda ed offerta, si presenta la necessità di capire come meglio posizionare il prodotto che si desidera piazzare.
E quindi si pensa al prezzo, al packaging, alla pubblicità, etc.

I luminari del marketing (mi ricordo di Claudio Nutrito), già a metà degli anni 80 avevano lanciato l’allarme verso la tendenza di sostituire il posizionamento con la “banale guerriglia”, ovvero: si investe semplicemente sul posizionamento che va di moda, a prescindere dalle necessità del prodotto.

Gli uffici di marketing, che gestiscono i budget di grosse aziende, poco tempo fa sembra abbiano “scoperto” Second Life e si sono buttati a capofitto.
Con risultati pessimi.

E così Wired – l’autorevole rivista nata da menti illuminate del MIT di Boston e dove tra gli altri scrive Nicholas Negroponte – si è interessato di quanto stava succedendo, pubblicando l’articolo “quel bluff chiamato Second Life”.

Secondo Wired – basandomi sul pezzo scritto da Jaime D’Alessandro il 13 agosto su repubblica.it – Second Life ormai vive solo sulla carta stampata.
L’originale, quello aperto in Rete nel 2003 dalla Linden Lab, è un luogo solitario pieno di cattedrali nel deserto sempre vuote.
Diecimila isole, campionario di edifici strabilianti messi in piedi da multinazionali di ogni dove per attirare orde di consumatori, tutte o quasi abbandonate.
Sembra infatti che gli abitanti di Second Life, appena 300 mila, preferiscano di gran lunga affollare sex shop e discoteche.
Ma solo 70 alla volta: assembramenti maggiori i server proprio non possono gestirli.

L’articolo è apparso sul numero di agosto e mette in dubbio i dati forniti dalla Linden Lab come già aveva fatto l’inglese The Guardian il 21 dicembre scorso.
Dei quasi 9 milioni di residenti, circa l’85% sarebbero entrati una sola volta in questo mondo virtuale, senza tornarci più.
Dei restanti bisognerebbe depennarne almeno la metà, perché avere due o più “Avatar” in Second Life è una pratica comune.
Il che porta a una popolazione reale di 300 mila persone circa.
Poca cosa rispetto ad altri mondi virtuali frequentati da milioni di utenti, nulla se paragonata alle comunità che animano espressioni del Web 2.0 come YouTube (chi non c’è ancora stato?) e Flickr, il sito multilingue di proprietà di Yahoo! che permette ai propri iscritti di condividere le proprie foto con la comunità di fotoamatori più grande del mondo (ogni minuto più di duemila nuove foto inserite da parte dei suoi 7 milioni di utenti).

E pensare che aziende del calibro di Coca Cola, Nike, Ibm, Microsoft, Nissan, Sony, hanno speso milioni per costruire le loro splendide e desolate sedi virtuali in Second Life.
Si va dai 10.000 dollari per una presentazione e un concerto, al mezzo milione all’anno per un’isola superaccessoriata e colma di grattacieli sfavillanti, almeno stando al prezzario della Electric Sheep o della Milions of Us, specializzate nel business delle costruzioni virtuali.

“Mi sembrava di essere entrato nel film Shining. Non c’era nessuno e non c’era nulla da fare” ricorda Michael Donnelly, capo della divisione interactive marketing della Coca Cola. Eppure Donnelly ha comunque deciso di spendere centinaia di migliaia di dollari per il Coke’s Virtual Thirst Pavillion.
Perché?
“Perché di Second Life se ne parla molto”, ammette.
Ma nonostante la popolarità sui media, è un investimento che non sembra avere molto senso.
Soprattutto se si pensa che lo stesso Donnelly ha sponsorizzato un concorso su Yahoo! Video guardato da quasi 6 milioni di persone, mentre sulla sua isola virtuale di Second Life passano sì e no 15 utenti al giorno.

“Molti dirigenti vivono nel terrore”, spiega Joseph Plummer della Advertising Research Foundation, che dagli anni ’60 studia il mondo della pubblicità.
“Sono cresciuti con un modello elementare, quello degli spot da trenta secondi da mandare in televisione, che oggi non funziona più”.
Di qui la necessità di trovare nuovi veicoli per raggiungere i consumatori.
E non sapendo che pesci prendere, si buttano a capofitto in qualunque cosa gli capiti a tiro anche se non ne capiscono limiti e potenzialità.

“Ecco come si è arrivati ad avere due Second Life diversi”, sintetizza Mario Gerosa, giornalista che frequenta l’universo della Linden Lab da anni e sul quale ha scritto un ottimo libro (Second Life, edizioni Melteni):
“Una versione sul Web e una sui media. Ed è la seconda la più interessante. E’ nata a ottobre scorso quando si venne a sapere che l’agenzia stampa Reuters stava aprendo una sua sede su Second Life. Poi arrivò la notizia che Anshe Chung, una giocatrice cinese che vive in Germania, era riuscita a guadagnare 1 milione di dollari vendendo proprietà immobiliari. Da allora il flusso di articoli non si è mai fermato, ingrandendo e modificando la realtà di Second Life. A quel punto aziende grandi e piccole, musei, politici, televisioni, etichette musicali, case cinematografiche hanno iniziato a spendere soldi senza alcun criterio alimentandone il mito al di fuori della Rete”.

Insomma, il MONDO VIRTUALE di Second Life sarebbe il primo ad essere diventato un MONDO DI FANTASIA.
E non è esattamente la stessa cosa.

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Sono mode, anzi mutazioni

Se con il termine intimità intendiamo una maggiore attenzione verso la sfera privata, nell’ambito del loisir, la notte sta tornando ad essere il luogo dell’intimità.

Il divertimento sta vivendo da qualche anno una profonda mutazione.
Non è necessario essere attenti osservatori per notare che sempre più ragazzi si incontrano in osterie, discobar, case private, feste in spiaggia, piazze e gradinate: sembra passino le serate semplicemente ad incontrarsi.
Altra cosa che non può passare inosservata, è che stanno nascendo sempre più luoghi dedicati ai non più giovanissimi.
Sempre nel rimanere nel “sembra”, la nuova parola d’ordine sembra sia “appartenere a sé stessi”.
Ed è come scomparso (almeno così … sembra) il bisogno di andare a cercare l’appartenenza da qualche altra parte: vi ricordate gli anni d’oro della megadiscoteca?

Oggi le cose vanno diversamente: basta pensare che la discoteca più famosa al mondo è un ristorante, il luogo più trendy di Ibiza è una spiaggia e alcuni dei luoghi più frequentati delle notti romagnole sono spiagge e parchi acquatici.
Nell’immaginario collettivo, oggi in Italia un luogo che richiami vacanza, moda e divertimento serale, è facile che sia una spiaggia.
A questo punto mi viene da dire che se esistono nuovi luoghi dell’aggregazione, di solito significa che si vivono nuovi desideri di appartenenza.

Caratteristica di questi “luoghi dell’intimità” sta nel non essere ancora identificati da un termine che ne determini il genere.
Qualcuno ha provato ad identificarli come luoghi Chill Out.
Il termine Chill Out nasce negli anni 90 per identificare una zona di relax all’interno degli spazi (discoteche o rave party), dove si consuma la musica elettronica ad elevati bpm (battute musicali per minuto).
Chill Out oggi è un genere, una way of life.
Un cosiddetto locale Chill Out è un corversation bar, un luogo di incontro con musica di qualità (in principal modo elettronica a bassi bpm e lounge).
Ad esempio la realtà del Buddha Bar di Parigi appartiene al mondo Chill Out.

Sicuramente è utile appioppare un nome a questi luoghi dove si consuma questo modo di incontrarsi.
Ma, a mio parere, è molto più importante comprendere che qui siamo di fronte ad una mutazione e non ad una semplice moda.
Per dirla come mi viene, finalmente sul divertimento non si sta standardizzando tutto verso un prodotto indirizzato ai soli giovanissimi (ovvero quelli che giustamente sono in continua ricerca di qualunque cosa fuori da loro stessi).
C’è trend che sta riguardando anche (ripeto: anche!) chi ha esigenze di divertimento ed incontro diverse da quelle di un diciassettenne.
Ci sarebbe da approfondire molto questo discorso.
Lo lascerei fare a chi ne è capace.
Mi accontento di dire, in qualità di ultraquarantenne, che questa cosa mi fa molto, molto piacere.

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Alessia Fabiani e l’Armarium Unguentum

Uno dei siti web più curiosi è sicuramente www.youtube.com.
Poco tempo fa alcuni giovani informatici californiani hanno avuto l’idea di invitare gli utenti della rete a fare ognuno la sua parte al fine di creare il più grande e strampalato archivio video (si tratta della cosiddetta filosofia “broadcast yourself“).
Il sito raccoglie, tra le altre cose, le immagini più curiose e imprevedibili successe nelle varie tv del mondo.

Tra le varie scene presenti nel sito, il mio amico Pietro mi ha indicato un’incredibile gag che vede coinvolta Alessia Fabiani, ex letterina di Jerry Scotti e protagonista dell’ultima edizione de La Fattoria.
Il filmato – intitolato “The madness of Italian TV” – presenta Alessia in stretta minigonna mentre a Buona Domenica, spicca un salto in alto con tanto di asticella e tappeto.
Sembra una sorta di gara modello Giochi Senza Frontiere… ma forse sarebbe meglio dire Giochi Senza Mutande (vedere per credere: andate su www.youtube.com e nel motore di ricerca interno al sito digitate “alessia fabiani”).
Dubito si tratti di casualità: quelle chiappe al vento (e altro ancora che si vede) rappresentano vera e propria intenzione.
Addirittura qualcuno potrebbe ironicamente parlare di profonda ricerca di contenuto televisivo.
Così, chi quel pomeriggio ha avuto la costanza di seguire il programma condotto da Costanzo, si è gustato almeno 10 secondi di emozione.

Però a pensarci bene, è una bella condanna: prima di vedere qualcosa di televisivamente emozionante, spesso è necessario sorbirsi ore di tv noiosa.
Allora ha ragione chi pensa che la televisione commerciale del futuro sarà quella che raccoglie tutto il meglio (e/o peggio) che succede.
L’obiettivo di miriadi di programmi inguardabili è destino che sia quello di costruire almeno 20 secondi capaci di fare il giro del mondo.
Tutto il resto non conta.

Questo non è certo uno scenario di cui andar fieri.
Anzi…
Da anni c’è un movimento di opinione che ritiene la televisione come un malato da curare.
E di questo spesso ne parla la tv stessa.
A questo “ammalato” manca una diagnosi che metta tutti d’accordo e ovviamente manca la cura.

Qualche giorno fa ho letto una cosa curiosa di Daniel Beckher, sostenitore dell’Armarium Unguentum:
“Se la ferita è grande, l’arma che l’ha provocata andrebbe unta quotidianamente d’olio, in caso contrario basterà ripetere l’operazione ogni tre giorni. L’arma andrebbe poi avvolta in un tessuto di lino e tenuta in un luogo tiepido e soprattutto pulito perché il paziente non senta dolore”.

L’Armarium Unguentum è una teoria del 1622, particolarmente diffusa a quel tempo, in base alla quale, anziché curare direttamente la ferita, si preferiva occuparsi dell’arma che l’aveva provocata.
Non vorrei che coccolando il mio televisore, si riescano ad ottenere risultati sorprendenti…
…se non addirittura emozionanti.
Oppure dovrei ungere l’Alessia Fabiani?

Rimini, 21 agosto 2006

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