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Il Figlio del Secolo, quasi come Trump

Per gli ignoranti e i pigri come me, c’è un’occasione fantastica per prendere possesso in maniera sufficientemente esaustiva di quello che è successo circa l’ascesa e la caduta del fascismo.

L’occasione è la saga di “M”, ovvero l’opera di Antonio Scurati.

Una quadrilogia di enorme successo, a partire dal primo libro uscito nel 2019, l’ultimo in libreria da quest’estate.

Sul piano personale, affrontare “M” è stato come intraprendere un percorso che mi ha entusiasmato e turbato… per questo ho bisogno di scrivere e, soprattutto, scrivermi addosso.

È tutto partito fin dal primo libro.

Mi sono sentito immerso in un mare di emozioni e cortocircuiti.

Da un lato il fascino verso l’Uomo del Secolo, il suo modo di parlare, di trovare sempre la sintesi, la sua capacità di essere sempre “Lui”, Mussolini.

Dall’altra, l’incredulità dello scenario, chiaro dalla lettura di Scurati, per cui ti rendevi conto dai documenti e dal corso degli eventi che avevi di fronte un cialtrone.

Bene… quel cialtrone romagnolo, non so perché, l’ho sentito molto vicino.

Fin dalle prime pagine, malgrado tutta la negatività che sappiamo, quell’uomo era davvero l’affascinate Figlio del Secolo.

La saga di Scurati è scritta in maniera assolutamente originale: le pagine scorrono a brevi e a volte brevissimi capitoli, dove, alla fine di ognuno, sono riportate le sintesi di documenti, telegrammi, telefonate intercettate, lettere che testimoniano ciò che è stato scritto.

Insomma, sei dentro, dentro a quel secolo e a quegli strazianti eventi.

Ce l’hanno raccontato in tanti che la Prima Guerra Mondiale ha creato la frattura tra l’epica romantica e la guerra moderna.

Lo stesso Scurati nel libro “Guerra” (di cui consiglio di leggere anche soltanto la bellissima e profondissima sua introduzione) ci dice che quel conflitto fatto di trincee, gas nervino e malattie non poteva più avere niente a che fare con la battaglia risorgimentale, né tantomeno con lo spirito cavalleresco.

Con le maschere antigas, l’etica della battaglia se n’è andata a quel paese.

Già La Grande Illusione di Jean Renoir (1939) ha ben raccontato la fine di quel romanticismo.

Romanticismo che comunque attraverso il Senso della Patria e l’atto del sacrificio eroico della Grande Guerra ha comunque continuato a dare manforte al Potere e alla sua Propaganda.

Ancora oggi c’è chi capitalizza (strumentalizza?) gli Arditi.

Per dirla come quelli bravi, “M”, in tutti i suoi 4 libri, ha evidenziato come la realtà sia “un oggetto socialmente negoziabile”.

La frase, assolutamente efficace, è una citazione dall’ultimo libro dell’amico Daniele Chieffi dedicato al Crisis Management (a cui dedicherò un prossimo segnale debole).

Ma “M” ha anche evidenziato il fascino di “Lui”, dell’uomo che sa sempre cosa dire e lo sa dire con la sintesi giusta, con l’epitaffio o il peana, per cui ogni discorso diventa un’affascinante sentenza, dove tu che ascolti non hai modo di replicare con la medesima efficacia, a meno che non inizi a metter su discorsi e spiegazioni lunghissime… lontanissime dall’efficacia necessaria.

È un po’ il solito discorso di sempre… parafrasando “Per un pugno di dollari”: l’uomo che con un discorso incontra l’uomo con uno slogan, quello con il discorso è un uomo morto.

Il tutto a prescindere spesso (troppo spesso) dal contenuto.

Lo vediamo in Trump.

È evidente nei suoi discorsi e sproloqui, che risultano assolutamente efficaci per il suo elettorato.

Trump dice sempre le stesse cose, reiterate più volte nello stesso discorso, senza costruzioni narrative coerenti, senza alcun filo conduttore tra un tema e l’altro: l’importante è reiterare quel concetto che sei sicuro che passi.

I discorsi di Trump sono come la sua immagine: il suo abito, i suoi capelli, la sua cravatta rossa sono come il costume di Capitan America, come la canotta di Hulk Hogan, la M di McDonald’s, il blue della Pepsi e il rosso di Coca-Cola.

I suoi discorsi devono essere come la sua immagine iconografica: sempre gli stessi, con gli stessi concetti che devono emergere almeno ogni 4 minuti… sennò chi ascolta si perde.

E i cortocircuiti cognitivi? Le contraddizioni? Gli elementi che non tornano?
Come si è visto, per noi elettori, spesso l’onestà intellettuale va in secondo piano.

Facciamo un esempio…
Trump si presenta come il negazionista climatico numero uno… e al suo fianco c’è Elon Musk.

Se chiedete a Musk perché crede nelle auto elettriche (Tesla) e nel treno super veloce su cuscino d’aria (HyperLoop), in un contesto differente vi darà anche motivazioni legate alla sostenibilità e salvaguardia ambientale.

Eppure…

Proseguendo con i cortocircuiti su Musk, in tanti si sono convinti che la stessa persona che ha trasformato Twitter in X licenziando oltre 6.500 dipendenti, sia l’uomo giusto (il Figlio del Millennio?) per rimettere in riga un apparato pubblico troppo pesante da mantenere, con la convinzione che l’umanità debba reggersi non con stupidaggini tipo, ad esempio, la sussidiarietà, ma con la selezione naturale.

E tutto questo provoca fascino.

Lo provoca, l’ha provocato e lo provocherà ancora.

D’altronde non c’è stato più convinto e affascinato fascista dell’alpino Mario Rigoni da Asiago, decorato eroe di guerra della Compagnia Stern… salvo poi diventare, attraverso i suoi libri, testimone sublime di una realtà vissuta e non “negoziata”.

Il mito dell’italiano buono in guerra…

Il mito dell’efficienza fascista…

Il mito della potenza militare imperialista italiana…

Tutte cialtronate.

Diceva bene Churchill, come riportato da Scurati: perché si è messo in guerra un popolo abituato a vivere in mezzo alla bellezza?

Insomma, siamo vittime del pensiero pigro e facilmente collocabile.

Per l’essere umano è difficile e laborioso approfondire, piuttosto che farsi bastare un luogo comune o uno slogan: bastano i primi 10 minuti di una lezione di neuromarketing per prendere coscienza di questa tesi.

Ciò non toglie che fin quando giudicheremo un leader politico semplicemente dalla sua capacità di essere efficace semplicemente attraverso la frase giusta, la mimica simpatica, o il gesto autorevole, ci troveremo i Trump a decidere le sorti del nostro mondo.

E, allo stesso tempo, pensare che a votarlo sono stati solo gli stupidi, è un altro luogo comune, un altro slogan, l’ennesimo bias cognitivo.

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La Grande Dimissione e il lavoro Hop

Il lavoro, un fenomeno che da sempre accompagna gli esseri umani come una condanna, nel XXI secolo potrà finalmente diventare una gioia creativa. 

L’ha detto il sociologo Mimmo De Masi, scomparso pochi mesi fa.
Con questo incipit, inizia un libro molto interessante, L’era del lavoro libero, scritto da un ottimo Francesco Delzio, che ha avuto la capacità di creare una sintesi di buona parte delle cose che ho letto, ascoltato e di cui mi sono documentato in questi anni sulla mutazione in atto del mondo del lavoro e dei riflessi che sta avendo e avrà sulle nuove generazioni.

Delzio parte indicando due nuove variabili, la great resignation e il job hopping, entrambe accomunate da una novità assoluta: queste variabili non nascono più dalle strategie aziendali, quindi dalla domanda di lavoro, ma hanno origine “dal basso”, ovvero dall’offerta. 

E più precisamente dal comportamento imprevisto e imprevedibile dei lavoratori delle Generazioni Millennials e Zeta.

La prima variabile è la great resignation, ovvero la “grande dimissione”.

Delzio in tutto il libro snocciola dati esemplari: nei primi 9 mesi del 2022, ben 1 milione 660 mila italiani si sono dimessi volontariamente dal posto di lavoro, in aumento del 22% rispetto all’analogo periodo del 2021, anno in cui le dimissioni volontarie dal lavoro hanno superato quota 2 milioni. E secondo l’Associazione Italiana dei Direttori del Personale, il fenomeno delle dimissioni volontarie dei giovani riguarda oggi il 60% delle imprese del nostro Paese.

Non ce n’eravamo accorti…ma è da tempo che i dipendenti hanno iniziato a scegliersi il datore di lavoro. 

Ma quali sono le cause del fenomeno?

Qui Delzio introduce un altro nuovo termine (almeno per me) che è Worklife Balance, ovvero l’equilibrio tra lavoro e vita, affermando che è molto cresciuto il peso attribuito da parte dei lavoratori alla libertà e alla flessibilità nella gestione dei propri tempi di vita. E al tempo stesso il lavoro non viene più percepito soltanto come mezzo di sostentamento e fonte di uno status sociale, ma anche come strumento di un più ampio progetto personale. Essere gratificati da ciò che si fa e da come lo si fa, coltivare le proprie passioni, mettere in campo la propria creatività, valorizzare la vita privata sono diventate esigenze sempre più forti. Prioritarie. Non più negoziabili.

Sto esattamente riportando quello che è scritto nel testo di Delzio, il quale a un certo punto cita pure Romano Prodi: «La realizzazione di sé stessi non viene più ricercata nel lavoro, ma nell’organizzazione della propria vita, perché lo stipendio, la carriera e la stabilità del rapporto di lavoro vengono messi in secondo piano di fronte all’esigenza più personale di essere padroni della propria quotidianità».

Quindi dobbiamo smettere di stupirci verso chi lascia il proprio posto di lavoro perché non si ritrova più un senso in ciò che si fa.

La seconda variabile è il cosiddetto job hopping, fenomeno molto radicato negli USA.

Significa “saltare da un lavoro a un altro”, prerogativa soprattutto dei Millennials, che lo utilizzano per assicurarsi stipendi più alti e un posto di lavoro con un miglior worklife balance.

Certamente un job hopper potrebbe essere giudicato un lavoratore poco affidabile, pronto ad andarsene a fronte di una più vantaggiosa offerta di lavoro, ma il fenomeno è comunque inarrestabile. 

Great resignation, job hopping, nuova visione del lavoro, worklife balance, mercato del lavoro liquido…

La domanda è: politica e sindacati in Italia e nel mondo se ne sono accorti?
Ovviamente parliamo di quella parte del mondo che può permettersi di mettere in priorità questi temi.

Sta di fatto che oggi la maggior parte dei responsabili delle risorse umane di multinazionali e grandi aziende afferma che attrarre talenti è più difficile rispetto al periodo pre-pandemia e che le aziende che offrono opzioni di lavoro ibrido ai propri dipendenti sono avvantaggiate nella caccia ai talenti. 

I nati tra il 1997 e il 2012, quelli della Generazione Z, entro il 2025 rappresenteranno circa il 30% della forza lavoro globale e cambieranno radicalmente l’ambiente di lavoro.

Quelli della GenZ sono abituati a vivere con gli algoritmi di Meta, Netflix, Spotify, Amazon e sanno esattamente cosa vogliono guardare, ascoltare o acquistare: se lo aspettano non solo come consumatori, ma anche sul posto di lavoro. Quindi: flessibilità sul luogo e gli orari di lavoro, velocità dei processi decisionali, formazione continua…

Delzio lancia un richiamo ai datori di lavoro che dovrebbero riconoscere queste (legittime) aspettative. 

Nel frattempo, nei colloqui di lavoro i giovani esprimono nuove e diverse priorità e aspettative: stipendio e possibilità di carriera non fanno di per sé la differenza. 

In sostanza, scrive sempre Delzio, la Generazione Z si aspetta e cerca non soltanto un lavoro, ma qualcosa di più coinvolgente: un senso di appartenenza, una missione condivisa, un set di valori, un ruolo sociale d’impresa nei quali potersi riconoscere come persona.

A questo punto entra in gioco un nuovo termine: quiet quitting.

Quiet quitting, lavorare senza stressarsi, «la pratica di non lavorare più di quanto si è contrattualmente obbligati a fare, soprattutto per dedicare più tempo alle attività personali; oppure la pratica di lavorare poco o nulla, pur essendo presenti sul posto di lavoro».

In parole povere, meno coinvolti… 

Questo scenario che presenta la GenX è una sorta di banco di prova per il mondo del lavoro, che presenta ulteriori sfide, probabilmente ancor più complesse.

Basti pensare al rischio bomba sociale che si sta affacciando, dal momento in cui gli assegni pensionistici hanno superato gli stipendi addirittura di 1,2 milioni di unità (da un report della CGIA di Mestre, sulla base di dati ISTAT e INPS, nel 2021 sono state erogate 22 milioni e 759 mila pensioni contro 22 milioni 554 mila stipendi).

Soluzioni vanno trovate al più presto, ma il processo ha bisogno di tanta, tanta tolleranza.

Dobbiamo tutti essere coscienti che prima di giudicare un comportamento o un fenomeno sociale, occorre entrare nella prospettiva che muove la coscienza dell’altro.

Bisogna comunque muoversi il prima possibile. Non possiamo rimanere inermi davanti all’attuale scenario, per cui per i datori di lavoro il problema non è più la preparazione inadeguata, ma addirittura la mancanza di candidati.


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ESG: è ormai sulla bocca di tutti

Ok, sulla sostenibilità non si scherza più.

Io che arrivo sempre un po’ tardi sulle cose, ho ricevuto definitivamente conferma di questo “segnale” a San Patrignano, dove si è tenuto lo scorso 13 aprile il Sustainable Economy Forum.

La star della giornata è stato un acronimo: ESG, che sta per Environmental Social Governance.

Spiegandolo in sintesi: un’azienda ha un approccio ESG quando mette nelle sue priorità sia la sostenibilità ambientale, sia la sostenibilità del contesto sociale in cui opera, sia quella legata al benessere dei propri dipendenti diretti e indiretti.

Al Forum ho personalmente toccato con mano una rivoluzione in atto.

Certo, erano “solo” parole quelle che volavano, ma quelle parole sono arrivate da autorevoli personalità del mondo degli affari e della finanza.

Già nel saluto di benvenuto della padrona di casa, Letizia Moratti, si era capito dove si andava a parare: “La sostenibilità deve essere sia ambientale, sia sociale, sia economica… e bisogna agire in fretta. Occorre avere mentalità aperta, ci vogliono approcci nuovi, mettendo in campo le nostre responsabilità individuali per farle diventare collettive. Da ora, bisogna che ognuno faccia la sua parte“.

Poco dopo, Luca Orlando, giornalista del Sole 24 ore, ottimo e incalzante moderatore del convegno, ha piazzato una domanda molto diretta sia alla referente di Banca Generali Lucia Silva(responsabile della sostenibilità), che di Banca Intesa Paolo Bonassi (Executive Director Strategic Support): “L’attuazione di un piano ESG, porta beneficio alle aziende?“.

La risposta è stata da entrambi gli interlocutori praticamente la stessa: “Valutiamo alle aziende un rating più basso se non c’è attenzione a ESG“.

Concetti già sentiti? Può darsi, però forse non con un linguaggio così semplice e diretto.

Poi è arrivato l’intervento che più mi ha colpito: quello di Claudia Parzani, presidente della Borsa Valori. Ecco alcuni passaggi…

Il successo economico va rivisto in ottica di progresso sociale. Il Purpose è uno dei cardini che deve muovere l’impresa. Il valore della governance è un altro tema chiave: a prescindere dalla dimensione, è la qualità che crea valore. L’attenzione e valorizzazione del capitale umano è sempre più importante ed è il tema più centrale nel business attuale: le aziende devono essere in grado di attrarre e trattenere le persone di qualità“.

E poi arriva il capolavoro… “Abbiamo mai misurato quanto incide l’infelicità in azienda? Ci siamo mai chiesti che persone siamo noi e come incidiamo verso gli altri?“.

Infine due chicche: “Dobbiamo avere più capacità di ascolto e uscire dal giudizio facile sui giovani“. 

Ed ecco la seconda: “Il leader oggi ha bisogno di essere vulnerabile e vero. Dobbiamo sconfiggere lo stereotipo del successo. Solo se sei umile puoi superare i tuoi limiti. Tutto quello che facciamo non è molto se non lo leghiamo a quello che fanno gli altri“.

Dai, confessiamolo: rispetto a pochi anni fa, siamo su un altro pianeta.

Interessante come sempre Chicco Testa, ora presidente di Assoambiente, che è partito affermando “Se ci riferiamo agli obiettivi di diminuzione della CO2, dobbiamo cambiare gli occhiali per vedere la realtà. L’aumento di CO2 deriva dalla volontà dei paesi in via di sviluppo di raggiungere maggiore benessere. Negli Stati Uniti il consumo è assai più alto rispetto a noi: se misuriamo le emissioni pro capite di India e Cina scopriremo che sono molto più basse delle nostre“. 

Testa ha anche lanciato un alert su qualche cortocircuito: ad esempio, i pannelli fotovoltaici cinesi vengono spesso prodotti da aziende che utilizzano tecnologie a carbone. 

E poi ha affermato che per migliorare la sostenibilità, abbiamo bisogno di innovazione tecnologica. Ad esempio, la carne coltivata (ovvero quella che chiamiamo sintetica) potrebbe essere un’ottima innovazione tecnologica. In questo senso, anche il navigatore satellitare è una grande innovazione green, in quanto ci fa risparmiare chilometri di viaggio e benzina.

Quindi il suo è stato un appello all’uscire dallo stereotipo per cui la tecnologia non sia al servizio del green.

Questa considerazione – per tanti acquisita da tempo – ci rende ancora più consapevoli della situazione strana e complessa che stiamo vivendo, in quanto stiamo affrontando la trasformazione digitale insieme a quella green.

E in questo contesto, spesso ci dimentichiamo che l’Europa incide “solo” per l’8% sulle emissioni di CO2: questo l’ha detto lì al Forum Alberto Marenghi, vice presidente di Confindustria.

Siccome non la voglio fare molto lunga, riporto in breve altri concetti che mi hanno colpito

Luca Orlando: Il capitale umano è sempre più raro… oggi sono i giovani che ci devono scegliere. 

Lucia Silva(Banca Generali): “È cresciuta la consapevolezza verso la sostenibilità: una volta il responsabile della sostenibilità faceva riferimento al capo della comunicazione, oggi fa riferimento al Direttore Generale. La sostenibilità è quindi arrivato ad essere argomento centralizzato e pervasivo”

Andrea Rustioni(DG di IGP Decaux): “Abbiamo forte aumento di richieste di prodotti pubblicitari e servizi sempre più sostenibili. Le grandi aziende ci chiedono servizi in cui possono ottenere KPI dove dimostrare il loro impegno sulla sostenibilità e valorizzazione del patrimonio urbano“.

Giovanni Sandri (Country Head di Black Rock Italia): “Buona parte dei prossimi mille unicorni saranno aziende che hanno operato nella decarbonizzazione“.

Cristina Bombassei(CSR di Brembo): “L’ESG manager è la quinta figura più ricercata al momento“.

Mirja Cartia d’Asero (AD Gruppo 24 ore): “L’umanesimo imprenditoriale è l’unica strada per lo sviluppo“. 

Giovanna Iannantuoni(Rettrice Università Bicocca Milano): “Lo sviluppo passa dal capitale umano e dall’innovazione tecnologica. Bicocca sta creando un corso per formare manager ESG“. 

Infine, nel suo intervento di saluto, Letizia Morattiha concluso affermando che “per arrivare alla sostenibilità occorre creare connessioni”.

Non solo il Forum di San Patrignano è stato per me fonte di nuovi input e di conferme in merito ai temi ESG.

Tra i vari, vorrei citare l’incontro organizzato lo scorso 24 marzo dalla Biblioteca di Santarcangelo, dove il professor Giovanni Boccia Artieri (mio sodale nella Confraternita del gin tonic) ha intervistato Paolo Iabichino, in occasione dell’uscita del suo interessante “Scrivere Civile”, edito da Luiss University Press.

Boccia nel suo cappello introduttivo, ha citato un dato di una recente un’indagine IPSOS: “il 65% dei consumatori si aspettano che le aziende si espongano nel prendere posizione nei confronti di tematiche civili e sociali“… e ciò è stato definito “un punto di non ritorno“.

Iabichino nel suo intervento è stato fin troppo chiaro: “Nel rapporti con i brand, c’è un rapporto fiduciario nuovo“.

Infatti, se da un lato ci siamo noi consumatori che “non siamo più obbligati a consumare tanto, bensì meno“, da un altro ci sono le aziende, per cui “la sostenibilità non è un vezzo, ma un obbligo per poter stare sul mercato“.

Leggendo le varie chicche di “Scrivere Civile”, Iabichino ci evidenza che prima le marche ci aiutavano a capire chi ci sarebbe piaciuto essere, mentre adesso la scelta del brand è compiuta perché rappresenta chi sono io e i valori a cui faccio riferimento.

È evidente che in questo spirito civile, unito ai processi ESG, tutti devono davvero fare la propria parte.

Quindi anche il marketing e la pubblicità devono, o motivati o costretti, spingere per questa nuova strada del capitalismo. 

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Overtourism: dove eravamo rimasti?

Il ritorno alla normalità post Covid ci riporta spesso al punto di dove eravamo rimasti.

In ambito turistico, uno dei temi che fino al 2020 mi stavano di più appassionando era l’overtourism, ovvero il sovraffollamento in alcune destinazioni turistiche. Da qualche anno, infatti, nel turismo si stava combattendo una nuova guerra: quella contro il turismo di massa.

A lottare contro l’overtourism non c’era più solo Venezia.

Carnevale Cannaregio

Anno dopo anno si sono via via moltiplicate le mete europee che hanno tentato di contrastare e regolare l’afflusso di turisti con nuovi divieti, volti a scoraggiare soprattutto il visitatore “mordi e fuggi”.

Il fenomeno, molto interessante, in questi giorni sta tornando trend topic.

Nel pre Covid abbiamo assistito a importanti e strani movimenti: vittime della loro stessa popolarità, molte città avevano addirittura smesso di farsi pubblicità.

In quei territori l’obiettivo era (e sta tornando a essere) molto chiaro: costruirsi un’immagine nuova, non più legata al turismo dell’eccesso, ma a quello di qualità, o culturale, con la conseguenza anche di ridare serenità ai residenti, soprattutto quelli dei centri storici.

Mi avevano molto colpito le azioni concrete portate avanti in varie località europee…

Ad Amsterdam, per evitare sovraffollamenti, in primis è stata rimossa la scritta I-AM-STERDAM con le varie lettere separate e disposte in diverse parti della città. Poi sono stati normati i tour in centro con gruppi al massimo di 15 persone e, udite udite, è stato dato lo stop ai tour a luci rosse…

A Dubrovnick è stata praticata una forte riduzione dello sbarco delle navi da crociera, chiuse l’80% delle bancarelle, nessuna autorizzazione all’apertura di nuovi ristoranti in centro, raddoppiata la tassa per gli airb’n’b, imposta una forte limitazione dei bus turistici e una tassa di 5 euro a passeggero…

Alle Baleari aboliti gli happy hour, vietate le modalità “open bar”, regolamentata la somministrazione di alcolici nei bar fino alle 21, stabilito il divieto di affitto camere e appartamenti ai turisti nei condomini…

A Barcellona si sono organizzati sia con lo stop totale alla pubblicità, puntando a promuovere gli altri centri della Catalogna, sia con il blocco delle aperture di nuovi hotel in centro.

Queste brevi info, raccolte in varie note sparse, hanno come fonti i vari giornali on line, specializzati e non, nonché gli appunti dai vari convegni a cui ho partecipato (uno dei quali sicuramente organizzato da Teamworks).

Per questioni legate al mio lavoro, ho invece avuto modo di toccare con mano e approfondire le problematiche relative a Sirmione, sul Lago di Garda.

Addirittura nei week-end di bel tempo, al fine di provare a governare i grossi picchi di affluenza, da tempo l’Amministrazione Comunale ha predisposto un senso unico pedonale, ovvero: se vuoi passeggiare attorno all’istmo o nel centro storico, devi per forza procedere nel senso di marcia che ti indicano i vigili urbani… e parliamo di traffico pedonale, non automobilistico. A Sirmione, in certi picchi primaverili, la concentrazione di escursionisti richiama veramente al concetto di congestione insostenibile.

In questi giorni si è discusso molto dell’assalto alle Cinque Terre, territorio a cui sono sentimentalmente legato. Le immagini e i titoloni ci rendono il senso dell’emergenza.

Credo sia abbastanza chiaro quali siano le controindicazioni che genera il fenomeno dell’overtourism. Lo sto capendo anch’io che sono romagnolo: per noi, l’overtoursim ha un po’ il sapore dell’ossimoro.

Il fenomeno da anni ha giustamente generato un dibattito che spesso mette sotto accusa chi ha avuto la miopia di aver buttato in vacca i vari patrimoni storici, paesaggistici, o naturali per ottenere arricchimenti immediati senza alcun tipo di strategia territoriale.

Quindi, al di là di Venezia, Firenze, Roma, ci sono una serie di borghi e isole che, in questa fase di ritorno alla normalità post Covid, più di prima – così sembra – stanno lanciando seri alert.

Vari autorevoli esperti, consulenti e imprenditori, si stanno ponendo la domanda di come valorizzare una risorsa come il turismo senza che questo possa andare a discapito della conservazione del patrimonio culturale, paesaggistico e naturale, nonché della qualità della vita delle popolazioni residenti, che quegli stessi luoghi li abitano per tutto l’anno.

In effetti se un luogo attira visitatori per l’atmosfera intima e delicata che possiede, come si può evitare che il turismo trasformi e banalizzi quell’assetto di così forte appeal?

In una conferenza a cui tempo fa ho partecipato, il Presidente della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini snocciolò una serie di dati importanti e positivi di quanto generassero gli investimenti delle varie Film Commission regionali: d’altronde se mentre guardi una puntata di Montalbano attorno c’è una Sicilia che splende, è gioco facile aspettarsi degli arrivi turistici.

Non sono in possesso di dati, ma in rete non si fa altro che parlare dei benefici che ha ottenuto Taormina grazie a The White Lotus, la pluripremiata serie HBO in programmazione su Netflix, dove lo splendido scenario della “perla dello Ionio” fa da cornice a una serie di omicidi ambientati in hotel, spiagge, borghi, darsene e mercatini che stanno invogliando potenziali turisti da tutto il mondo.

Quindi da un lato il nostro paese sta investendo in immaginari da esportare, da un altro stiamo acquisendo la consapevolezza che senza un turismo limitato e di qualità (non solo in senso economico), i territori rischiano di deludere le aspettative dei visitatori.

Il turismo è veramente materia delicata e da anni ci sta dando delle indicazioni precise.

Chi sta osservando le dinamiche di questo ultimo decennio, ha acquisito la consapevolezza che sta crescendo esponenzialmente la domanda di quei turisti che ambiscono a quelle destinazioni che si caratterizzano come luoghi dove il residente ha sviluppato una elevata qualità della vita, parametrata secondo le nuove scale dei valori.

In più è in atto un fenomeno molto chiaro ed evidente: chi va a farsi un week-end a Madrid, o a Venezia, o a Gubbio, vuole immergersi in quella dimensione. Ovvero: non vuole essere un turista, ma diventare madrileno, veneziano o eugubino per quei 2 giorni.

Questi tuffi nell’autenticità sono un cortocircuito, in quanto a volte quelle experience tanto desiderate, non riesci proprio a viverle.

Mentre a Barcellona, Roma, New York, Riccione i grandi flussi fanno parte integrante dell’experience (credo che le Ramblas o la Broadway vuote non interessino a nessuno), altri territori più piccoli e delicati hanno bisogno della loro giusta e autentica dimensione.

E in più c’è un altro scenario da tenere presente: appena sarà terminata l’era di Xi, sicuramente sul mercato si affaccerà un altro miliardo di turisti cinesi (attualmente ce ne solo “solo” 400 milioni ogni anno) a cazzeggiare in giro per il mondo.

L’antropologo Marco Aime, interpellato in una puntata di “Tutta la città ne parla” su RadioTre, ha affermato che il numero chiuso è un male necessario. “Non è solo un problema di affollamento. Dagli studi fatti, un eccesso di turismo porta all’impoverimento e a lungo andare, toglie appetibilità alla destinazione“.

Ma qual è la molla che ci costringe a intrupparci verso una destinazione dove vanno tutti?

Secondo Aime si tratta di “effetto movida“: desideriamo andare dove vanno tutti gli altri, avvertiamo spesso il bisogno di voler esserci.

Ovviamente i social hanno amplificato il successo di alcune destinazioni, ma è anche vero che c’è sempre più gente che si muove.

C’è chi sta parlando di una deriva Disneyland.

La conseguenza? La banalizzazione degli spazi e dei luoghi e la gentryfication, grazie alla scellerata gestione delle affittanze brevi.

Eppure il turismo approfondisce la multiculturalità… o non è più così? Oppure porta all’imbruttimento dell’omogeneizzazione?

Secondo Aime, nel turismo manca il tempo affinché avvenga uno scambio.

Nulla da dire, la riflessione non è per niente male.

Va bè, però lui è un “filosofo”… invece che ne pensavo gli imprenditori?

Michil Costa, famosissimo albergatore altoatesino, interpellato sempre da “Tutta la città ne parla“, è ancora più categorico. “È giusto contingentare le presenze. A nessuno deve essere vietato di venire nelle Dolomiti, ma secondo le disposizioni che stabilisce la comunità che ti ospita. D’altronde quando ai concerti i biglietti sono finiti, che fai?

Addirittura ha affermato che, quanto prima, sarà la carbon footprint (l’impronta di emissioni di CO2) a determinare i flussi turistici.

Va bè, lui è un imprenditore illuminato…

E noi romagnoli?

Da noi, dopo dagli anni 90 in poi, non facciamo che rimpiangere l’overtourism che ci caratterizzava.

Pensate, io la sera di un Agosto del 1980 avevo pensato di arrivare da Rimini a Riccione con il mio Ciao: all’altezza di Rivazzurra decisi di tornare indietro, in quanto non ce la facevo a passare nel traffico.

Noi siamo nati per giocare un campionato differente: d’altronde è qui che è stato “inventato” il turismo di massa.

Ciò non toglie che deve essere sempre il padrone di casa a dettare le regole, sia quelle generali (ossia la buona educazione, l’inclusività e il rispetto per gli altri), sia quelle sartorializzate verso il pubblico a cui si vuole puntare.

Sta di fatto che il sovraffollamento turistico è un argomento su cui devono confrontarsi menti lucide, aperte e competenti.

E quanto prima è bene mettere in esecuzione le linee guida che potranno essere definite.

Tutto questo deve assolutamente succedere prima che monti una linea di pensiero per cui il turismo diventi non un’opportunità, ma un male da sopportare.

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Non chiamiamole Baby Gang (se non lo sono)

Baby Gang, un fenomeno sociale che va monitorato.

I media questa cosa non la stanno prendendo sotto gamba, anzi. Idem amministrazioni, Istituzioni e forze dell’ordine.

Tutta questa attenzione è assolutamente necessaria, ma forse c’è anche una certa tendenza nei media e nell’opinione pubblica nel catalogare come Baby Gang anche fatti che non appartengono a questo ambito, con la conseguenza di generare ulteriori risvolti negativi.

Sappiamo che nel proprio percorso identitario i giovani ambiscono ad avere un ruolo a tutti i costi.

I social sono lo specchio di quanto siamo disposti a essere idioti pur di non rimanere ignoti.

Ed è facile cogliere l’assurdità di come spesso sia addirittura un ruolo nella malavita a dare un senso all’esistenza di molte persone, soprattutto giovani.

Il libro “Zero, zero, zero” di Roberto Saviano, uscito anni fa, ha puntato l’attenzione al tema dell’epica nella malavita, raccontandoci di come le gang sudamericane legate al narcotraffico (soprattutto messicane) abbiamo saputo costruirsi una narrazione epica di forte consenso popolare, creando un fortissimo senso di orgoglio interno.

Quindi: codici di onore, linguaggi dei gesti, tatuaggi, segni di lotta, ovvero riti e segni che poggiano su valori di ben poco spessore, nonché di pessimo credo, tuttavia elementi utili al fine di produrre un racconto eroico e mitico della proprio esistenza.

Da qui mi collego all’appello di fare attenzione a definire Baby Gang ogni azione delinquenziale giovanile: si rischia di dare un ruolo, un senso di appartenenza a chi è semplicemente uno “scappato di casa”.

È noto: l’estetica delinquenziale “paga”.

Lo vediamo nella musica, nella comunicazione di un certo abbigliamento “urban”, negli eroi e anti eroi della strada che il cinema esalta.

Non ricordo dove l’ho letto, ma oggi, nella narrazione, la lotta non è più tra buoni e cattivi, ma solo tra cattivi… oppure tra i tanto cattivi e i meno cattivi: ossia il male contro il peggio.

Il mito delle Baby Gang di Città del Messico, Buenos Aires, Guatemala City, nonché Detroit, le banlieu parigine, i quartieri di Napoli, etc sono riferimenti estetici sempre più saccheggiati.

Criminalità e microcriminalità organizzata giovanile esistono eccome… ma se a tutti i giovani che delinquono diamo a prescindere la patente di appartenere a una Baby Gang, o addirittura di esserne un leader o una leader, rischiamo di generare un disperato orgoglio, figlio del disagio e della nostra maledetta disattenzione.

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La banalità salverà il mondo

La guerra e la pandemia stanno contribuendo a restituirci un’idea antica della morte.

Da molti decenni il benessere, le più allungate aspettative di vita e la tecnologia hanno fatto sì che le paure quotidiane risultassero altre, quali l’invecchiamento, l’imperfezione fisica, l’inadeguatezza sociale e soprattutto la paura di condurre un’esistenza incompiuta, inadeguata, non all’altezza.

Quindi le problematiche legate alla frustrazione hanno, in noi essere umani moderni, rubato il trono alla morte e alla fame. Questo concetto l’ha bene espresso Riccardo Falcinelli, uno dei più apprezzati visual designer.

Le sue considerazioni sul tema dell’identità sono veramente interessanti.

In altre epoche, nelle relazioni umane contavano soprattutto le pratiche, quindi i ruoli, e non le identità. Un re era un re perché svolgeva quel ruolo. Idem un contadino.

Oggi i nostri sforzi vanno nella direzione di far coincidere quello che vogliamo essere con quello che non riusciamo a fare e a diventare.

Quindi spesso viviamo di apparenza.

Tutto questo succede perché ci impaurisce la banalità.Ci teniamo troppo a essere unici e speciali.

Ma cos’è la banalità?

Stefano Bartezzaghi, il semiologo, le ha dedicato un libro: una figata.

Il termine banalità viene dalla radice “ban” che significa villaggio.

Banale quindi era ciò che tutto il villaggio già sapeva.

Per me, la banalità acquisisce un fascino enorme nel momento che diventa strumento di unicità.Essere banali in un mondo di fenomeni può produrre esiti molto interessanti e piacevoli.

Bartezzaghi è illuminante quando racconta di Papa Francesco e della sua prima apparizione dalla finestra di Piazza San Pietro.

Ricordate quale fu la prima parola che disse?

È stato fantastico: disse “Buonasera”.

Semplicemente Buonasera, accompagnato da una pausa.Ci può essere qualcosa di più  banale?

Eppure… 

Quel “buonasera” ha immediatamente posizionato il personaggio.

E con il tempo, ogni suo gesto ha mostrato una straordinaria coerenza verso la semplicità (quelli bravi direbbero orizzontalità) di quel saluto.

Sempre in merito all’identità, ho un’altra sollecitazione.

Ne La Grande Bellezza, Sorrentino ci ha regalato diversi colpi di genio. Uno di questi è stato contestualizzare la clinica estetica come un luogo di culto religioso, dove i demoni dell’invecchiamento e dell’inadeguatezza estetica venivano esorcizzati dal grande chirurgo, un immenso Massimo Popolizio.

In quelle scene, è parso evidente come l’identità non sia qualcosa che si fa o si è, ma è qualcosa che si consuma.

Sempre citando Falcinelli, addirittura il sesso è strumento del “si è” a discapito del “si fa“.

Insomma… ci nutriamo di identità, ogni giorno compriamo identità.

Facciamoci caso: ogni volta che vediamo un amico cinquantenne con un nuovo “atteggiamento trasandato sul selvaggio”, spesso la causa è la sua nuova Harley Davidson: dal momento che ha acquistato quella “merce”, ha assunto l’identità dell’Harleysta.

Sto banalizzando? Certamente.

La moda questi meccanismi li ha colti molto bene.

Ad esempio, la moda dei ragazzi che indossano i pantaloni senza cintura che scendono mostrando le mutande, sono l’effetto di una necessità identitaria.

Il conformismo di mostrarsi disobbedienti, trova nei carcerati un simbolo di ribellione.

I carcerati, come noto, non possono indossare la cintura, quindi mostrarsi con i pantaloni calati significa lanciare il segnale che si appartiene a quel mondo lì.

Quindi attenzione: vestito così ti comunico che sono ribelle e cattivo… perché io  ho bisogno di essere ribelle e cattivo: non vorrai mica che mi limiti a essere banale? 

Idem per i tatuaggi.

Non c’è  niente da fare: l’identità è prodotto.

E come spesso accade, sono le merci a salvarci la vita.

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Zitti e… Boomers

Per chi ha la mia età, essere additati come Boomers non può essere una bella cosa… soprattutto se si svolge un lavoro come il mio.

È in uso da parte dei giovani della Zeta Generation l’espressione “Ok Boomer” per zittire genitori e persone sopra gli “anta”, più precisamente quegli adulti che non sono aggiornati, anche se credono di esserlo.

Sembra che tutto sia iniziato in Nuova Zelanda grazie alla deputata Chlöe Charlotte Swarbrick, venticinquenne, che durante il suo intervento in aula, infastidita da un suo collega più anziano che borbottando la interrompeva, ha fatto un cenno di stop con la mano esclamando velocemente “ok Boomer”… e così è riuscita a zittirlo e a continuare il suo discorso.

L’episodio lo cita Nan Coosemans, Family Coach, Youth Trainer e fondatrice di Younite.

L’ossessione di essere sempre sul pezzo, d’altronde fa parte della mia generazione, quella appunto dei Baby Boomers, quei fortunati nati dal 1946 e il 1964 (altre fonti indicano il 1960).

Finalmente con “ok Boomer” c’è un’offesa che ci mette in riga, che ci fa sentire distanti, che ci rassegna all’evidenza che esiste (eccome se esiste) lo stacco generazionale.

È inutile avere un Mac, l’iPhone aggiornato, utilizzare car sharing, mangiare consapevole, etc.

Era ora.

Però dai, concedetecelo: ce l’abbiamo messa tutta a non mollare.

Ma forse, più che tutta, ce l’abbiamo messa troppo… e continuiamo a mettercela tanto.

A evidenziarlo, c’è il fenomeno delle Perennials.

L’ultima edizione di San Remo ce l’ha mostrato ben bene, grazie alla presenza di Ornella Muti.

L’Ornella nazionale non si è atteggiata né da milf, né da cougar, né tantomeno da gilf (ci mancherebbe altro). Il suo orgoglio di eterna giovinezza, che le ha permesso di esibire uno spacco gamba mozzafiato, nasce quella intraprendenza identitaria che non so chi (un genio!) ha chiamato Perennial.

E questo è accaduto nello stesso Festival dove i Morandi, Ranieri e Zanicchi hanno mostrato la loro eterna energia, ma con un atteggiamento (quelli bravi direbbero tone-of-voice) assai differente: cauto, consapevole, autoironico.

Osservando le Perennials (e i Perennials), c’è da chiedersi dove si colloca la soglia del ridicolo.

E qui non parliamo solo in riferimento ai Boomers.

Nei media, compresi i nuovi media, quella fatidica soglia del ridicolo viene elusa da ogni categoria generazionale.

I dispensatori di morale hanno buon gioco a sentenziare l’epidemica mancanza di maturità, su tutti i fronti generazionali, per cui i giovani danno segnali di infantilismo, mentre gli adulti si comportano come adolescenti. 
Mentre i bambini? Beh, loro bruciano le tappe… in maniera troppo veloce e (ci dicono gli esperti) in maniera sempre più preoccupante.

C’è qualcosa che non va? Sì, ma questo da sempre. Almeno da quando è iniziato il consumismo.

In questo scenario, mi permetto di lanciare un messaggio di solidarietà a quei poveri analisti del marketing, a cui spetta l’arduo compito di intercettare sempre nuovi Buyer Personas.

Facciamo un esempio…

Laureato, professionista, eterosessuale, single divorziato, quarantottenne, una figlia tredicenne, amante della mountain bike, frequentatore di cliniche estetiche, tifoso ultras (solo quando gioca in casa), divoratore di fantascienza, vegano, attualmente iscritto a un corso per creator/influencer.

Immaginate il casino!

Non ci resta che stare zitti e buoni: è un mondo difficile.

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Il Paese dei Balocchi patrimonio dell’Unesco

La notizia delle discoteche come patrimonio dell’Unesco è un’occasione per rigenerare una serie di argomentazioni che hanno sempre avuto il destino di non sfondare.

Però ci si riprova: non si sa mai…

È bene precisare che a Berlino si vuole rendere patrimonio immateriale la musica Techno e le discoteche storiche che hanno caratterizzato quella scena ne vengono coinvolte di conseguenza, all’interno di un progetto che sarà, ci scommetto, organico e ben strutturato. Per chi volesse approfondire, l’articolo del Guardian è abbastanza esaustivo.

Quindi, i locali berlinesi (solo alcuni) vengono considerati per essere stati parte proattiva di una proposta culturale con relativa scena subculturale, se non addirittura controculturale.

E noi, con i nostri locali qui nella Riviera Romagnola?

Per noi la notizia potrebbe rappresentare un’altra delle poche occasioni in cui provare a ragionare seriamente su cosa hanno rappresentato i nostri locali da ballo – e la conseguente Nightlife – nella rappresentazione del nostro territorio, nonché nel condizionamento degli usi e costumi dei giovani italiani e della società tutta.

A mio umile parere, anche senza scomodare l’Unesco, basterebbe “semplicemente” attivare questo doveroso processo di analisi, utile ad approfondire i valori del loisir tout court, in un paese dove è nata la favola di Pinocchio, la cui morale è nota: chi si va a divertire è destinato a diventato un somaro.

La speranza, in cuor mio, è che il passaggio da Paese dei Balocchi a patrimonio dell’Unesco possa trasformarsi in possibilità concreta anche in Italia.

Rappresenterebbe un nostro salto di maturità capace di generare maggiore qualità e responsabilità da parte di tutti gli operatori di un settore da sempre poco considerato.

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La piazza Malatesta, il celodurismo e l’Ibridocene

Rimini è in scena un dibattito animato attorno alla nuova piazza Malatesta che affaccia sul Castel Sismondo, sede principale del neonato Museo Fellini.

Non farò la cavolata di inserirmi nella guerra tra i pro e i contro in merito al risultato dei lavori: mi interessano invece il tono e l’approccio al dibattito.

Quello che può interessare anche i non riminesi, è che ci troviamo in una situazione in cui hanno ragione in tanti, anche se questi “tanti” hanno opinioni diverse che portano, a loro volta, a conclusioni diverse.

Come sappiamo tutti, è assolutamente possibile che la ragione non stia da una parte sola. Ma ultimamente, ogni volta che accade, casco dal pero come se mi trovassi davanti a qualcosa di fantascientifico. 

Mi trovo personalmente a favore del progetto della piazza per come è stato realizzato, anche dopo aver letto e ascoltato le varie opinioni contro. 

Malgrado la mia posizione abbastanza netta, non riesco a essere intollerante verso chi la pensa in maniera completamente differente… sia perché molte di quelle diverse posizioni hanno comunque senso, sia (soprattutto) grazie al mio approccio alla questione, emotivamente molto distaccato.

Comprendere però il senso delle opinioni differenti è stato per me molto difficile, visto che ho dovuto epurarle da incrostazioni di odio, da argomentazioni non pertinenti, da giustificazioni che partivano da troppo lontano, da necessità di rivalsa e di visibilità personale, etc…

Tutto questo sia nell’ambito social, che nelle chiacchiere tra amici “in presenza”.

Lo scenario che evidenzia il dibattito cittadino (e non solo: c’è stata anche un’interpellanza parlamentare…) è comunque quello solito: a fronte di esposizioni anche ben argomentate, nelle repliche e nei commenti vige lo scontro tra ultras.

La polarizzazione delle opinioni è un fenomeno che stiamo vivendo da tempo, accelerato dal grande successo del celodurismo del “senza se” e del “senza ma”. Tant’è che a volte basta fare un’analisi dove si evidenziano i vari aspetti di una questione, che si dà l’idea di non andare a fondo alle cose e di menare il can per l’aia.

Oggi chi vende certezze, vince… e chi vende certezze non deve argomentare, ma lanciare sentenze.

E non c’è nulla come gli slogan ad effetto per evidenziare il senso di certezza.

La frase presa in prestito da “Un pugno di dollari” è molto efficace: se l’uomo con un discorso incontra l’uomo con uno slogan, quello con il discorso è un uomo morto.

Quindi la complessità spesso si bypassa attraverso scorciatoie di pensiero che rappresentano l’humus ideale per le polarizzazioni da ultras.

Eppure…

Eppure i “Maestri” ci dicono che siamo entrati nell’Ibridocene.

Per spiegare bene questa nuova era ibrida, al Web Marketing Festival il professor Luciano Floridi ha portato come similitudine le mangrovie, capaci di vivere sia in superficie che in acqua.

Un altro maestro, Paolo Iabichino, ci sprona per dotarci della capacità e volontà nell’accogliere le interconnessioni e connettere tutte le possibili polarizzazioni divergenti: dobbiamo abbracciare l’ibrido come una nuova condizione ideale, una nuova era geologica (da “Ibridocene“, edizioni Hoepli).

E ci parla di Phygital, un mondo dove la fisicità abbraccia il digital e dove è necessario apprendere per propagazione, provando nuove strade, ascoltando opinioni differenti e unendo discipline anche molto distanti tra loro.

Quindi la nostra capacità di progredire è strettamente legata allo sviluppo della nostra indole di condivisione.

Lo storico Harari ci ha dato una sua spiegazione su perché l’essere umano ha imparato a vivere e convivere in sempre più grandi tribù: perché insieme abbiamo saputo immaginare e idealizzare (un Dio, una moneta, uno stato…).

Eppure la nostra incapacità di confronto sereno è sotto gli occhi di tutti, mostrando che non solo la nostra evoluzione non è finita, ma che forse di strada ne dobbiamo fare ancora tanta.

Nel suo piccolo, il dibattito riminese ci ricorda che se anche l’argomento è la cultura e, nello specifico, l’approccio filologico con cui occorre approcciarsi alla rigenerazione di una piazza storica, il linguaggio e il tono tendono ugualmente a strabordare, a sputare rabbia e rancore.

Eppure questo è lo stesso pubblico che il marketing studia e analizza sotto continui e sempre più precisi riflettori. 

È lo stesso pubblico che ha portato Kotler, il padre del marketing, ad aggiungere un’ulteriore “P” alle sua teoria delle 4 P (product, price, placement, promotion). 

La nuova P è quella di People. Sì, proprio noi. Gli ultras… quella gente lì che litiga sempre.

C’è da chiedersi se le meritiamo tutte quelle attenzioni.

Al concerto di Patti Smith, al momento di “People have the power” avevamo tutti i lacrimoni…

Come dire: spesso ce la raccontiamo e ce la cantiamo.


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Il sorriso è un’invenzione moderna

Gli algoritmi di intelligenza artificiale sono sempre più in grado di ingannarci.

Sono incredibili quei video in cui personaggi del passato riprendono vita, magari cantando una hit degli anni 80. 

Esemplare il video in cui Stalin e Hitler cantano “Video killed the radio star”.

In un suo articolo di diverse settimana fa, Paolo Attivissimo ha parlato del servizio Deep Nostalgia. Grazie a tecnologia israeliana, l’azienda USA My Heritage ha trovato l’idea per dare vita a persone ritratte in vecchie fotografie.

Paolo Attivissimo (qui il link dell’articolo) spiega molto semplicemente come funziona: a) si carica la foto; b) l’algoritmo sceglie quale tra i video pre-registrati presenti in archivio si adatti meglio; c) l’algoritmo applica i movimenti del video alla foto, che viene trasformata in una Gif animata.

Il soggetto della foto così comincia a muovere gli occhi, la testa e soprattutto comincia a sorridere.

Sì perché, se è una foto d’epoca, la persona ritratta sicuramente non stava ridendo.

Questo perché il sorriso nelle foto è roba recente.

Nelle foto abbiamo infatti cominciato a ridere a partire dalla metà del Novecento.

Ce lo fa notare Ermanno Cavazzoni nel suo stravagante “Storie vere e verissime”. 

Paradossalmente, nonostante le grandi tragedie avvenute fino a pochi anni prima (guerre cruente, stermini, genocidi, etc), dagli anni 40 in poi la gente deciso di farsi fotografare mentre sorride: non ridere come a un varietà o nel vedere uno che scivola in maniera buffa… ma a sorridere, come se andasse tutto bene. 

Il primo cheese, dice sempre Cavazzoni, sembra sia partito da un’idea di Roosvelt: era il 43, nell’apice della guerra, e lui rideva. 

Tutto questo mentre nelle foto degli altri “grandi” della terra, le pose erano sempre serie e rigorose.

Oggi ridere in foto è praticamente automatico.

I denti nelle foto traspaiono dai sorrisi solo a partire dagli anni 50.

Da quando il volto umano è stato raffigurato, più di 6 mila anni fa, l’espressione è sempre stata normale, ovvero né corrucciata, né sorridente. Che senso avrebbe la statua di Augusto mentre sta ridendo… o quella di Napoleone a cavallo con il volto di chi si sta divertendo.

Per i nostri antenati aveva senso ritenere che chi ride in posa non è autorevole e non può essere di esempio.

Adesso è diverso.

E Cavazzoni la mette così: oggi va di moda la felicità e mostrarsi contenti.

E questo ritiene possa essere un problema.

Infatti si chiede: cosa diranno i posteri di noi? 

Da qualche decennio stiamo lasciando ai posteri i nostri sorrisi, mentre la nostra epoca racconta di test nucleari sul Pacifico, del Vietnam, del Biafra, dell’inquinamento che ci sta distruggendo, dell’Amazzonia che va a fuoco, dell’Aids che ne uccide a milioni e poi l’Intifada, le Torri Gemelle, le pandemie… 

Cinici e strafottenti: ecco come appariremo ai posteri.

Quindi Cavazzoni lancia un appello per come rimediare, da adesso in poi: basta sorrisi nelle foto… magari presentiamoci negli scatti con facce preoccupate o al limite espressioni stoiche, per dare l’idea di essere diventati ragionevoli e consapevoli.

Giustamente qualcuno potrebbe obiettare che adesso nelle foto non c’è solo il problema dei sorrisi…

Come la mettiamo infatti con la questione dei selfie, con tutte quelle boccucce a paperella? Il duckface, appunto.

Niente paura, da qualche tempo c’è il fishgape

Si tratta di un’espressione facciale più naturale, con le labbra leggermente socchiuse, a pesce. 
Le prime ad apparire fishgappate? Jennifer Lopez e Kim Kardashian.

Anche perché il fishgape aiuta a risaltare gli zigomi e rende più magri i volti (così dicono i siti di quelli che una volta erano i giornali patinati).

E poi c’è anche la migrain pose, cioè la posa del mal di testa: sguardo in camera e occhi semichiusi, come quando si ha un emicrania.

Ma non finisce qui: siccome autenticità e naturalità sono il nuovo diktact, ecco la towel face: scatti apparentemente estemporanei, senza trucco, magari nel bagno di casa, magari coperti solo dall’asciugamano della doccia.

Vabbè… Ma almeno la bocca a paperotta sta piano piano sparendo e i posteri capiranno che, oltre al sorriso, anche questa è stata solo un’altra parentesi di un’umanità confusa.

22 Marzo 2021

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La Tesla e gli zombie fuori dal finestrino

La nuova Tesla si presenterà a breve sul mercato con una nuova caratteristica che ha incuriosito: gli altoparlanti esterni.

Ovviamente saranno altoparlanti di alta qualità. E saranno anche potenti.

Sono due le funzioni che dovranno espletare e hanno a che fare con alcune emozioni che ben esprimono il sentimentdel nostro tempo: da una parte la vanità, dall’altra la paura e la conseguente difesa.

Andiamo con ordine.

La musica in macchina si ascolta per sé stessi. Ma, come ben sappiamo, non solo. L’estetica dello sburrone ci ha mostrato il classico gomito appoggiato al finestrino tutto aperto e lo stereo “a manetta”.

Bene. Ora proviamo a pensarlo in ottica Tesla con questa nuova funzione chiamata, non a caso, Boombox: finestrini abbassati, volume giusto all’interno dell’abitacolo e in esterno le casse attivate. 

Non ho idea di cosa preveda il codice della strada… ma non è questo il punto. 

Ancora una volta, il privato – in questo caso, la tua personalissima playlist – puoi con vanità condividerla in esterno al tuo passaggio in auto. Né più né meno come postare su facebook: esprimo la mia identità condividendo quello che piace a me.

Il nostro privato esce dalla nostra auto. Ma, se ci pensiamo bene, spesso la mia stessa auto esprime da sola quello che sono o voglio far credere di essere. Probabilmente a qualcuno non basta e allora ci attacco la colonna sonora. Della serie: oggi esco in Tesla, ma anche con il rap italiano. Domani? Sempre in Tesla, ma in dark metal.

E poi chiaramente al parcheggio, con gli amici, davanti alla spiaggia al tramonto, l’impianto è già lì, senza neanche aprire le portiere: una figata!

La vanità è quindi servita.

È una roba strana? Neanche tanto. A mio parere molto meglio delle auto tunizzate, anch’esse molto spesso allestite con costosissimi super impianti hi-fi… ma in Tesla forse tutto diventa molto meno tamarro e più figo.

Dalla vanità passiamo alla paura.

Sei in auto e vuoi comunicare con qualcuno all’esterno? Un pedone, un ciclista o un altro automobilista che ti ha fiancheggiato? Con Tesla non c’è più bisogno di abbassare il finestrino: parli attraverso gli altoparlanti esterni. Come dire: non si sa mai…

Quindi massima sicurezza nei rapporti occasionali con l’altro.

Guai ad abbassare il muro contro gli zombie. È sbagliato? È incivile? Beh, molto meglio che far finta di niente o fare cenno di no con la testa, senza ascoltare, quando ti si avvicina qualcuno che non conosci per chiedere magari una semplice informazione. 

Lo scenario appare abbastanza chiaro, ma una certa confusione rimane. 

Dopo aver letto la notizia su Tesla, ho faticato a uscire dalla pulsione del giudizio di pancia: il mio primo impulso è stato quello di ridicolizzare. Poi, come a volte succede, ti viene in mente che nelle grandi aziende i percorsi non sono casuali e ogni sussurro del mercato, diventa eco che si diffonde a valle.

Tesla, con questo nuovo optional, sicuramente risponde alla domanda di mercato sia di vanità, sia di sicurezza.

Sta di fatto che osservare questo mondo mette sempre di più alla prova la nostra tolleranza ed educazione.

Ci salva il fatto che, pur essendo la Tesla con gli altoparlanti esterni disponibile negli autosaloni, abbiamo sempre la facoltà poter gestire la nostra vanità e fiducia verso gli altri come riteniamo più opportuno. E sarà sempre il confronto con gli altri a renderci più maturi e attrezzati.

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Dai, facciamo i bravi…

Il messaggio di auguri di Aquafan è diventato virale: “Facciamo i bravi… e la terza ondata sarà quella della Piscina Onde”.

Non è cosa facile comunicare un senso di responsabilità. Soprattutto se il tuo principale pubblico di riferimento sono i giovani (e coloro che si sentono tali). Sarebbe molto più facile promettere emozioni dal sapore proibito, soprattutto quando sei lassù, sulla mitica collina di Riccione.

Nel chiedere di fare i bravi, il rischio è di diventare paternalista. E poi se gli appiccichi una promessa (quella di divertirsi in Piscina Onde), rischia di diventare l’esca del parroco, per cui vieni a fare il rosario, così poi dopo tutti al campetto a tirare calci al pallone.

Fortunatamente sia il blasone di chi ha firmato il messaggio, sia il linguaggio utilizzato, sono riusciti a creare quella magia che a volte la comunicazione ci regala, ovvero: è passato all’utente esattamente quello che il promotore voleva dire.

Fondamentale è la fiducia: Aquafan ha la forza di riuscire a mantenere il proprio appeal affrontando qualunque argomento.

In seconda battuta, Aquafan è il luogo del divertimento sano e su questo presupposto ha sempre affrontato sia la sua comunicazione, sia il suo business.

Essere luogo del divertimento sano a tanti è spesso sembrato un ossimoro: il “sano” ha poco a che fare con il territorio del divertimentificio, che ha a volte esasperato la voglia di trasgressione, nonché di eccesso… per poi scoprire che, a parte rari interessanti casi, quella trasgressione si concretizzava in una drag queen sul cubo… e niente di più.

Aquafan è come CoccoBill, il personaggio dei fumetti di Jacovitti, che ogni volta che entra nel saloon, compie un gesto altamente trasgressivo: ordina una camomilla. Non il solito whisky dei veri pistoleri, ma qualcos’altro che spacca trasversalmente quell’immaginario.

Aquafan è quella roba lì: adrenalina, super eventi, balli fino a notte fonda… ma sempre con la giusta dose.

È lo stile Aquafan, contaminato dagli insegnamenti di Cecchetto e poi di Linus… ma soprattutto qui c’è il genius loci di noi romagnoli.

E poi la forza del media: il messaggio è stato affisso in un superposter alto 12 metri posizionato in faccia all’uscita del casello autostradale di Riccione. Ha beneficiato quindi della forte autorevolezza che emanano i mezzi di comunicazione imponenti. E poi i social hanno fatto il resto.

Infine (last, but not least) la consapevolezza imprenditoriale di dare un ruolo di responsabilità ad Aquafan.

E poi ricordiamoci che una buona idea nasce se c’è un gruppo di lavoro che funziona. In sostanza, la creatività riesce a emergere solo se l’impresa le dà senso.

Comunque, nei fatti, “Facciamo i bravi…” è diventato virale.

Il segnale che emerge è la tanta voglia di speranza. Ma anche di leggerezza. E su quest’ultima cosa, Aquafan è leader di mercato.

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A volte basta uno spaghetto

Chi non si vaccina rischia di doversi pagare le cure in caso di contagio Coronavirus. È una proposta lanciata qualche giorno fa e che i media hanno evidenziato. E c’è chi come me, a primo impatto ha apprezzato. Mi è bastato però il tempo di uno spaghetto con l’amico Enrico Pozzi, che la mia posizione è cambiata. Enrico mi ha fatto notare che se questa cosa fosse giusta, lo dovrebbe essere altrettanto nel caso di chi si fuma due pacchi di sigarette al giorno e poi incide sui costi della Sanità pubblica per curarsi dal cancro ai polmoni.

Osservazione interessante, che ha messo in crisi le mie certezze. Mi chiedo: ma allora chi ha lanciato quella proposta, non l’ha ragionata abbastanza?

Certo, il tempo di uno spaghetto è assai lungo rispetto a quello che passa da una pulsione emotiva alla pubblicazione di un tweet. Ma forse chi lancia proposte dall’alto di un incarico pubblico, o chi rilascia intervista a un media, dovrebbe per forza permettersi almeno il tempo di un confronto a voce alta con qualcuno.

Siamo sempre lì: il tema è la capacità di governare le pulsioni, dare predominanza alla riflessione, lavorare attraverso il confronto e la condivisione.

Però tutto sommato quella proposta come principio non è affatto male… a patto che vada estesa su tutto.

D’altronde le assicurazioni ce lo insegnano: una cosa è essere coinvolti in un incidente stradale mentre viaggi ai duecento all’ora, un’altra se ti capita mentre rispetti i limiti. 

È il famoso concorso di colpa. Andavi forte? Ne paghi le conseguenze… anche se è stato quell’altro a non rispettare lo stop.

Quindi: come facciamo con i fumatori accaniti e i conseguenti malanni ai polmoni? E con quei malati di cuore che malgrado tutto, ogni fine pasto il caffè lo prendono super corretto?

E con quei diabetici che mangiano come vogliono, “tanto la sera mi sparo l’insulina”?

Va forse costruito un nuovo paradigma nel rapporto tra causa, effetto e responsabilità. 

Il principio potrebbe essere questo: io non ti vieto niente, semmai ti consiglio e ti do le linee guida… e tu puoi fare come ti pare. Però le conseguenze negative le paghi tu. 

Ma anche ragionando solo tra me, capisco che questa linea comporta forti cortocircuiti. Sarebbe come dire: compra pure il kalashnikov, ma se poi lo usi…

Questo paradosso mi spiazza e mi mette in crisi e più in là di così, non riesco ad andare: i limiti mie, ho in parte imparato a conoscerli.

Il tema forte è comunque il senso di responsabilità… il quale, affiancato al buon senso e alla condivisione prima dell’agire, produrrebbe un mix micidiale, probabilmente capace di sconfiggere qualsiasi virus.

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere di Rimini e visibile a questo link.

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Safety Car o Rivoluzione?

In questi giorni, la più suggestiva metafora l’ho ascoltata da Mauro Santinato di Teamwork. Parla della Safety Car. Per cui siamo tutti alla stessa velocità dietro a qualcuno che ci guida, in attesa che si ripulisca la pista dagli incidenti e dalle macchie d’olio… per poi ripartire. Ovviamente affinché la ripartenza post emergenza avvenga, è necessario avere in dote delle linee guida certe e affidabili, e armare i “piloti” di fiducia e di qualche certezza. Molti operatori del settore turismo, ristorazione compresa, ritengono che la Safety Car messa in pista dal Governo avrebbe sbagliato non solo la velocità, ma addirittura autodromo. Della serie: siamo in Formula Uno, non sui go-kart. 

La situazione è sicuramente complessa e l’esasperazione è ormai un dato di fatto da parte degli operatori. La rabbia, nel momento che sale, è capace essa stessa di diventare un problema. Tant’è che leggendo quello che esce sui social, non c’è da stare allegri. Se si dovessero prendere alla lettera le varie dichiarazioni di operatori pubblicate in questi giorni, ci sarebbe da pensare che la Digos abbia un bel po’ da preoccuparsi.

Ma sono solo parole. Almeno finora. Non voglio pensarci, ma la notizia del primo suicidio di un imprenditore del turismo potrebbe far sì che dai toni incazzati si passi a gesti “simbolici”, capaci di andare un po’ troppo in là. 

Decidere cosa fare non è facile, ma forse non è neanche difficilissimo. 

Hanno provato a spiegarlo in tanti, pure Zagrebelsky. E quello che ha detto l’ho capito anch’io.

In sintesi: un popolo non si può guidare solo per ordinamenti e sanzioni, ma occorre dargli anche la “smolla” attraverso la partecipazione responsabile. E poi – e questo è argomento che amo – i mezzi  le modalità di comunicazione per promuovere l’obbedienza, devono esser diversi da quelli per creare responsabilizzazione. Quindi “a ciascuno il suo: al governo le prescrizioni giuridiche (vietare, consentire e imporre), alla società, nelle sue tante articolazioni, la promozione dell’etica della responsabilità“.

Condivisibilissimo. Ma prima di applaudire, ci dobbiamo porre una domanda: c’è da fidarsi di noi Italiani? Da sinistra, sembra che arrivi un coro di no. Beh, non poteva essere altrimenti: è stato un governo di destra ad applicare la legge anti fumo… che già dopo neanche una settimana, gli Italiani hanno acquisito e messo agli atti nella loro quotidianità. 

Quindi? È giusto fidarsi del nostro senso di responsabilità? 

Mah… Basta girare per strada e tocchi con mano che di persone di cui non vale la pena fidarsi, ce ne sono troppe. Questo al netto delle grigliate di condominio sui tetti, delle corse clandestine al trotto sulle strade di Palermo, delle dichiarazioni di Sgarbi per cui “una visita a Codogno è una figata, tanto sono tutte cazzate“, e via di seguito.

La cosa buffa poi è che il tema della fiducia riguarda sempre gli altri… poi magari scopri che proprio tu fai parte di quella cerchia di persone di cui gli altri non si fidano.

Non so che dire. 

Non vorrei che da questa cosa mi rimanesse solo l’idiota pregiudizio per cui non fidarsi è di sinistra, mentre “dare la smolla” e di destra. Non se ne può più…

Da parte mia, mi piacerebbe che si creassero le condizioni per ricordare questo periodo per aver ricevuto un atto di fiducia, sentendomi, come tutti gli altri, responsabile della salute e sopravvivenza di ogni componente di quel patrimonio che si chiama comunità. 

Dovrebbe essere così, anche senza Covid19. Perché i cittadini devono essere parte della soluzione e non il problema.

L’articolo è uscito anche sul Corriere di Romagna, leggibile a questo link.

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Se bastasse uno schemino

Stamane mi sono svegliato e ho avuto la brillante idea di costruire uno schemino in grado di contribuire a fare chiarezza sulle strategie che sta adottando il Governo, in merito alle procedure sociali da adottare durante questa pandemia.

Sto facendo fatica a districarmi tra le varie critiche che sta ricevendo il Governo, che secondo me sta procedendo con buon senso. Ma del mio feeling verso l’individuazione del miglior buon senso, non mi fido sempre molto.

Per questo motivo ho provato a realizzare uno schema che mi aiutasse a applicare la logica.

Eccolo qui… spero possa essere di aiuto anche ad altri.

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Togliete quei plexiglass dai media!

Qui non è questione di look, o di essere fighetti. Il posizionamento di immagine è una cosa seria. Ha a che fare con le logiche sofisticate (non nel senso di fighette, ma nel senso di complesse) del brand.

Per dirla come ce l’hanno insegnato i grandi del marketing, brand è il lavoro che fa una marca nella testa del cliente. Perché mentre un prodotto si fa in fabbrica, il brand si costruisce nella mente del cliente.

Quando si tratta di costruire una Ferrari, non basta progettare e assemblare qualità. Occorre affiancare anche una personalità. Tant’è che una Ferrari ti dà godimento sia che la guidi, sia che la tieni in garage. Così come un Rolex ti dà gusto al polso anche nel caso le lancette siano ferme. Questo perché non abbiamo acquistato semplicemente un prodotto, ma un feeling. 

Fare in modo che un marchio sia nel cosiddetto Top of Mind, significa essere il primo link rispetto a una suggestione. Ad esempio, fin dagli anni 80, Volvo ha lavorato affinché la prima risposta alla domanda “indicami un’auto sicura“, la risposta fosse proprio Volvo. E il lavoro è consistito nel creare un prodotto realmente sicuro e più sicuro degli altri, ma anche nell’impostare questa idea nella testa di noi potenziali clienti.

Bene… Adesso immergiamoci in quello che nella testa delle persone è rimasto dopo il bombardamento mediatico di quei plexiglass in spiaggia. Credo che il risultato sia questo: a partire dal 7 aprile, quando la notizia è cominciata ad uscire, la nuova cartolina della Romagna sia diventata quella. E malgrado tutte le smentite (anche autorevoli e ben motivate) che si tratti di un’idea sbagliata, inopportuna, impraticabile, scomoda, economicamente sconveniente, peggiorativa, etc, sui media (giornali, web, social, televisioni e radio… quindi non solo internet) c’è ancora qualcuno che costruisce rimandi e link a questa ipotesi. 

Qui adesso bisogna agire.

L’appello è alle APT, alle DMC, alla Regione e ai nostri Comuni tutti. Controbilanciamo e sostituiamo quella malsana cartolina del nostro territorio il prima possibile.

La fase delle dichiarazioni, delle controdeduzioni e dei ragionamenti è finita: ora iniziamo la fase della ricostruzione dell’immagine. Ora bisogna lavorare per scardinare quel visual infetto, sostituendolo con un’immagine diversa, onesta e vera, che sia rappresentativa del miglior feeling che possiamo essere in grado di offrire.

Nella testa di chi ha incamerato il visual delle spiagge al plexiglass è arrivata una suggestione lontana dai bisogni attuali. Già era poco vincente l’immagine della nostra spiaggia colma di turisti, con gli ombrelloni troppo vicini e la gente accalcata. Tant’è che Rimini si è voluta dotare di una progettualità nuova per il suo waterfront. Ma ora più che mai, in fase di ripresa post Covid19, il desiderio di naturalità, autenticità è il fronte da perseguire, anche per andare incontro alle esigenze, sia amministrative che psicologiche, del distanziamento sociale (sarebbe stato meglio definirlo distanziamento fisico, ma vabbè…).

rendering del progetto Parco del Mare di Rimini

Ricordiamoci sempre che quando acquistiamo un prodotto (che sia un vestito o una vacanza) in realtà acquistiamo la versione migliore di noi stessi. Questo perché, nella società che ci siamo costruiti, siamo abituati grazie anche (ripeto “anche”) alle merci – sia materiali come un’auto, sia immateriali come una vacanza – a trovare scampoli di felicità e certezze identitarie. 

Proviamo a fare lo “spiegone”…

Gli psicologi e sociologi studiosi della pubblicità, ci stanno dicendo che in realtà il compito della pubblicità è sempre stato quello di farci disinnamorare di noi stessi.

Attenzione, il discorso si fa interessante…

La pubblicità, nel mostrarci con sapienza nuove merci, ci fa capire che senza quel prodotto non siamo all’altezza e ci incute un senso di perdita. Questa cosa ha a che fare con il cervello primitivo, quello che fa partire le reazioni di pancia. ma tutto si risolve facilmente: per riappropriarci dell’amore verso noi stessi, basta l’acquisto di quella merce. In sintesi, il prezzo della felicità equivale a quello del cartellino appeso alla merce. E tutto questo processo ricomincia da capo ogni giorno, davanti a ogni vetrina, ogni giornale, ogni device…

Quindi acquistiamo continuamente con l’illusione di migliorare noi stessi. Attenzione… non stiamo parlando solo di Ferrari o Rolex, o di vacanze in yacht a Formentera o un intervento di chirurgia estetica. Questo processo investe tutto. Compreso l’acquisto dell’ennesima maglietta in super svendita, del nuovo guinzaglio per il cane, della nuova custodia per lo smartphone comprata “dal cinese”.

In questo complesso contesto, giusto o sbagliato che sia, l’acquisto di una vacanza c’è dentro fino al collo.

Bene: la cartolina con il plexiglass non ci aiuta, anzi…

Quindi non rimane altro che distribuire nuove cartoline. Nuove cartoline che sappiano essere vere e credibili, capaci di esprimere le nuove esigenze di autenticità e che siano espressione credibile dei valori del nostro territorio.

L’appello di queste righe non è puntato a far sì che il lavoro sia svolto bene, per carità: le nostre task force sul turismo in questi anni hanno saputo confezionare bene la nostra offerta. 

L’appello sta nel velocizzare questa opera di riposizionamento.

Bisogna agire subito nel modificare la cartolina del plexiglass, in modo che quell’argomento venga sostituito e abbandonato, e quella deleteria suggestione (che non meritiamo) sia cancellata.

Come? A questo ci penseranno gli esperti. L’importante è che succeda da domani. Anzi, da stasera.

Sennò questa fase due, per noi sarà un due di picche.

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere di Romagna e leggibile a questo link.

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Una 4 Stagioni al tavolo 7, laggiù all’incrocio…

Prima abbiamo vissuto la fase dell’incredulità, poi dello sgomento. 

A seguire c’è stata quella della resistenza e della retorica. 

E siamo arrivati a oggi, dove deve per forza partire la fase che chiamerei “epurata”. 

È la fase concreta, il momento della messa a terra delle cose da fare.

Serve quindi buon senso, ragionevolezza e una volontà epurata da tutto quello che in questo momento non serve.

Questo ragionamento torna particolarmente utile se affrontiamo l’argomento della futura ripresa del settore della ristorazione.

Dice bene Rino Mini, imprenditore e manager, nonché ristoratore: “Se i ristoranti non avranno gli stessi coperti di prima, saltano in aria. Succederà per molti e si salverà solo chi ha le spalle ben coperte. Dobbiamo evitarlo a tutti i costi“. Poche parole, ma chiare. Mini sa bene che la ristorazione è un driver strategico territoriale. Il nostro territorio vanta un’offerta ampia, varia e ben diffusa. Per noi è un forte vantaggio: siamo destinazione anche per questo. Le saracinesche chiuse non fanno aumentare gli incassi a chi rimane: se l’offerta di un territorio perde i pezzi, l’appeal cala. 

Quindi in gioco c’è la sorte di lavoratori e imprenditori, ma anche l’immagine di tutta una serie di territori, come anche il nostro, vocati alla qualità della ristorazione, dove convivono sapientemente innovazione e richiami alle tradizioni.

Nel concreto, quello che c’è da fare è presto detto: le amministrazioni devono concedere ai ristoratori tutti gli spazi all’aperto disponibili per la realizzazione di dehors esterni, in modo che si possano ampliare gli spazi di somministrazione.

L’obiettivo? Compensare il necessario “taglio” dei tavoli utile a garantire le distanze di sicurezza tra i clienti che i nuovi provvedimenti comporteranno.

Il tutto da concretizzare con tempistiche veloci, meglio se velocissime, in modo che gli imprenditori abbiano modo di organizzarsi, per essere pronti il giorno stesso in cui la riapertura sarà possibile.

Quindi…

I Comuni prendano in mano la situazione, come in diverse occasioni hanno dimostrato di poter fare e mettano come priorità anche il fare sistema tra loro. 

La Sovrintendenza intervenga con modalità adeguate all’emergenza (per carità: nessun incitamento all’anarchia, ma una richiamo al buon senso).

Le categorie economiche facciano in modo che i tavoli operativi siano veloci e diretti, senza quindi vetrine e retoriche.

Gli imprenditori ragionino in ottica di sistema una volta per tutte.

E i cittadini? A tal proposito mi ricordo di quel macellaio riminese intervistato in piena emergenza mucillagini dell’89, che dichiarò di non essere toccato dal problema, in quanto i suoi clienti non erano turisti,  evidenziando la sua inconsapevolezza nel dedurre che probabilmente almeno 7 dei suoi 10 clienti acquistavano le sue bistecche con i soldi guadagnati dalla loro attività turistica.

Estate 1989: il Presidente dell’Agenzia del Turismo Primo Grassi mentre beve un bicchiere di acqua di mare davanti ai fotografi, sfidando la peste delle alghe.

Quindi che tutti facciano la loro parte. 

Non ci sono molti altri discorsi da fare.

Partiamo da qua.

E una volta avute le certezze adeguate, partire con l’operatività.

Il tutto affiancato da un’adeguata attività di comunicazione. 

E su questo, i nostri Comuni non hanno nulla da imparare.

Let’s roll!

L’articolo è anche pubblicato sul sito del Corriere di Romagna: ecco il link.

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La carta igienica bugiarda e la discoteca per uno solo

Ci avevo creduto anch’io, ma non è vero: la carta igienica non è il bene di consumo più saccheggiato durante la quarantena.

L’ha spiegato bene il solito Paolo Attivissimo in un suo articolo pubblicato sul portale Zeus, che vi riassumo in breve.

Sono due le sue controdeduzioni.

La prima è che la sparizione della carta igienica sia in realtà un fenomeno mediatico. 

Riceviamo la maggior parte delle informazioni in forma visiva e quindi un oggetto ingombrante e vistoso come un pacco di carta igienica spicca di più rispetto a una scatoletta di tonno, sia nel carrello della spesa pieno, sia come spazio vuoto sugli scaffali“.

E in più c’è l’esito mediatico che non conta poco: il consumatore con il pacco famiglia da trentadue rotoli sottobraccio è sicuramente più fotogenico di un cliente con otto scatoline di dentifricio.

E poi vogliamo mettere l’aspetto quasi ridicolo e assurdo dell’incetta di carta igienica rispetto a una più sensata scorta di zucchero o detersivo?

Quindi una fake news? Non proprio, ma quasi…

Seconda controdeduzione, più concreta.

Dovendo stare in casa invece di andare a scuola o al lavoro, la conseguenza è che si consuma più carta igienica nel proprio domicilio e molta meno nei luoghi pubblici. Questo causerebbe un effettivo aumento della necessità di carta igienica per uso domestico e il continuo svuotamento degli scaffali. Il rischio di rottura di stock è per forza quotidiano: una cosa è consegnare confezioni per uso casalingo, un’altra fornire pallet per scuole, uffici, stadi, aeroporti, stazioni, autogrill, ristoranti, etc..

Quindi, o per uno, o per entrambi i motivi sopra elencati, “possiamo smettere di dare la colpa di queste momentanee penurie alla stupidità del genere umano“. Paolo Attivissimo conclude con stile, ammettendo però che la tesi della stupidità dava sicuramente più soddisfazione.

È chiaro che quando non capiamo le cose, invece di ammettere la nostra ignoranza, giochiamo la carta della stupidità degli altri.

Spesso però le cose che non capiamo le accettiamo comunque, soprattutto quando sono contestualizzate all’interno del recipiente simbolico dell’arte. Almeno questo succede a me: mi faccio piccolo piccolo (con l’arte non si può fare la figura degli ignorantoni) e provo almeno a indagare.

Così mi è successo per un’iniziativa della Biennale Val Gardena, dove a Ortisei ha aperto una piccola discoteca per una persona alla volta. No, mi dispiace: non è stata pensata in ottica Covid19. Si tratta di una piccolissima baita in legno, che presenta l’insegna Disco For One. È un omaggio a Giorgio Moroder, nato da quelle parti. Se l’iniziativa non avesse la sua bella narrazione e il suo messaggio simbolico, sarebbe una bella str….ta. Invece, per come è stata presentata, risulta affascinante. Infatti, tutto quello che è uscito sui media (finora non tanto, a dire il vero) non ha presenta cortocircuiti e di questo ne stanno beneficiando tutti i soggetti coinvolti.

Un po’ come è successo per Achille Lauro a San Remo, dove se si sbagliava una sola virgola, quello che usciva poteva scatenare l’effetto baraccone. E invece, come è stato evidente, tutto è andato per il meglio e il brand Gucci si è portato a casa un’esposizione mediatica pazzesca e di alta qualità. Lì, l’operazione è stata una sorta di geniale hackeraggio, dove l’idea è stata supportata dalla migliore attività di ufficio stampa dai tempi del lancio del telefono cellulare in occasione di Italia 90. 

È proprio vero: il linguaggio dell’arte ci aiuta a crescere e ad allargare i nostri orizzonti.

Ma come faremo nell’immediato post Coronoavirus con l’arte, i suoi eventi, le sue esposizioni, i suoi spettacoli? 

C’è stata a Stoccolma la provocazione della presentazione di un’opera di Rossini davanti a un singolo spettatore, scelto attraverso un sorteggio, il tutto organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura. Stessa cosa l’ha proposta il Teatro dell’Opera e del Balletto di Perm, in Russia. Una sorta di “Opera for One” invece del “Disco for One” di cui abbiamo parlato. 

Ok, quelle notizia sono uscite in tutto il mondo, ma non sono state presentate come possibili soluzioni… ci mancherebbe altro.

Mi ha invece affascinato l’idea di far esplorare ad alcune compagnie teatrali l’ipotesi dei cosiddetti Peep Show. I quartieri a luci rosse delle capitali nord europee presentano questi spettacolini, per cui chi entra assiste appartato in singole stanze e pertugi. Per il teatro potrebbe essere una strada percorribile, al fine di garantire le esigenze di distanza sociale. Lo riportava il sito Exibart, che sottolineava di quanto fosse palloso il teatro in video, che non poteva essere quindi un’alternativa da prendere in considerazione. 

La questione non è di poco conto. Il teatro e l’arte a tutti i livelli, hanno il faticoso e affascinante ruolo di interpretare il nostro presente: è da lì che molti si aspettano di ricevere una nuova interpretazione e messa a terra del prezioso concetto di comunità.

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere di Romagna ed è visibile a questo link.

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Quale hotel per la mia prossima vacanza?

QCome dice Roberta Milano, esperta di viaggi e turismo, il turismo è a uno stop e ha due problemi: cosa fare ADESSO e cosa fare DOPO.

Concetto semplice e chiaro.

E a proposito di semplicità e chiarezza, questo è il momento di porsi domande altrettanto semplici e chiare al riguardo.

Ecco quelle che sono venute in mente a me…

Riuscirò ad andare in vacanza?

Quali caratteristiche dovrà avere l’hotel della mia prossima vacanza?

E in quale luogo deciderò di andare?

Se il mio business è il turismo, adesso come posso impegnare questo periodo di quarantena? 

Le varie risposte le sto ricavando sia dagli esperti, sia dagli operatori turistici stessi.

Quindi…

Ci sarà domanda di mercato di vacanze? E quanta?

Chi è bravo a rispondere, deve per forza tenere conto delle difficoltà economiche, della mancanza di ferie, ma anche dell’aspetto psicologico.

L’altro giorno Forbes ha pubblicato un sondaggio dove alla domanda “Qual è la prima cosa che farai quando sarà finita la quarantena“, il 45% degli italiani ha risposto: “Aspetterò diversi giorni prima di fare qualcosa“.

Per dovere di cronaca, il 20,5% ha risposto “farò una festa” (privata a casa con amici stretti), il 19,3% “andrò al ristorante“, il 12,4% “viaggerò in Italia” e il 3% “viaggerò all’estero“.

Altra domanda semplice e diretta: che caratteristica deve avere l’hotel della mia prossima vacanza?

Le indicazioni su come andare incontro alle nuove esigenze che richiede la lotta alla pandemia, hanno a che fare la modifica delle nostre abitudini e un nuovo necessario approccio alla quotidianità, almeno nella prima fase del dopo virus.

A questi cambiamenti ovviamente si dovrà adeguare il servizio in hotel.

Al riguardo, in questi giorni ogni albergatore al mondo si sta ponendo la questione di come rendere l’accoglienza più adeguata possibile alle problematiche del Covid-19, evitando forme di contatto fisico.

Gli esperti hanno cominciato a dare indicazioni mostrando che le soluzioni ci sono.

Prima di tutto va sensibilizzato il personale attraverso una formazione comportamentale (quindi non semplice teoria, ma guida pratica e fisica di come muoversi),  al fine di evitare qualunque gestualità che implichi contatto diretto con i clienti. 

Va modificata la procedura di sbarazzo e rimpiazzo del tavolo, per cui sostituire e igienizzare sempre e tutto… e magari prediligere l’usa&getta, ovviamente con materiali in linea con la sostenibilità ambientale.

Diminuire il numero di tavoli rispettando le giuste distanze, garantendo un numero adeguato di persone in sala.

Quindi, conseguentemente, prolungare gli orari di apertura del ristorante, allungando l’orario del servizio e organizzando turni, dove il cliente avrà la possibilità di scegliere l’orario a lui più consono e gli operatori sapranno gestire orari e presenze per evitare assembramenti.  

Cancellare i servizi buffet e self service e ritornare al “servito”, oppure gestire il servizio come se si fosse al banco di una gastronomia.

Creare proposte di menù veloci magari da far scegliere al cliente, al fine di limitare il tempo di permanenza del cliente in sala.

Incentivare il pasto in camera, magari dotando ogni camera di un tavolo adeguato.

Aumentare il numero di divise per ogni addetto, per garantire il cambio ogni giorno.

Gestire ordini e fornitori in modo da ridurre i giorni di consegna, organizzando le modalità di contatto all’arrivo delle merci, nonché lo smaltimento sia degli indumenti del personale addetto al ricevimento, sia degli imballaggi.

E altre cose che sarà importante e doveroso fare…

Ecco, nella scelta dell’hotel credo proprio che riterrò fondamentali queste informazioni.

C’è ancora chi dice che il mestiere dell’albergatore (e del ristoratore) sia una passeggiata?

C’è anche un’altra questione: queste azioni che ho citato non solo vanno fatte, ma vanno raccontate.

Se il consumatore turista non riceve queste informazioni, non si riesce a trasmettere il messaggio di fiducia.

Il punto è proprio qui: veicolare fiducia e credibilità. 

Anche qui le cose stanno cambiando…

Fino a ieri, quando si trattava di “raccontare”, si utilizzava il termine storytelling.

Lo storytelling, di cui ad esempio è maestro Oscar Farinetti, ci permette di far affacciare il consumatore alle emozioni e quindi di posizionare il nostro prodotto all’interno di quegli scenari valoriali che fanno comodo in termini di acquisizione di appeal e quote di mercato.

Bene, quella roba lì è forse finita.

Gli esperti ci stanno dicendo che dallo storytelling è necessario passare alla storydoing.

Attenzione: qui non si tratta semplicemente di una nuova definizione autoreferenziale (quindi autolesionista) del marketing.

Storydoing è un termine tecnico per definire l’indirizzo in cui proprio in questa fase è bene far virare la narrazione.

In poche parole: attraverso lo storydoing ti dico quello che faccio nel concreto, ti spiego come mi sto muovendo e come sto gestendo la mia quotidianità per offrirti quello che ti sto promettendo.

Quindi, non voli pindarici ed emozioni che poi non trovano riscontro nel concreto.

Schema grafico by Future Concept Lab (Francesco Morace sempre sul pezzo)

Grazie alla narrazione storydoing, in tempo reale ti faccio vedere cosa sto facendo per te, che sei o potrai diventare un mio cliente.

Ha detto bene l’altra sera Paolo Iabichino nella diretta Instagram che organizza con Giovanni Boccia Artieri: la soglia di sensibilità dei consumatori si è molto alzata e quello che sta succedendo è come un setaccio che porta a galla solo le cose che contano.

Lo stiamo vedendo tutti i giorni: questa profonda crisi ci fa apprezzare le persone che fanno cose che contano, piuttosto che coloro che sanno solo raccontare, ma che poi nel concreto non fanno nulla.

Altra domanda semplice e chiara: quale territorio eventualmente sceglierò per la mia vacanza, che sia di una settimana o un veloce short break?

Sicuramente non il luogo più bello, ma quello di cui mi fiderò di più.

E qui entra in gioco lo Storydoing di cui abbiamo sopra accennato, che diventerà acceleratore strategico nella creazione di fiducia verso il consumatore.

Se quindi potremo permetterci qualche giorno di vacanza, c’è caso che la scelta possa ricadere su località fino a ieri lontanissime dai nostri pensieri, ma magari a pochi kilometri da noi.

Sta a vedere che nel breve, la nostra Riviera diventerà il luogo di vacanza di tutti i romagnoli…

Infine, c’è il tema di come sarebbe opportuno che gli operatori turistici impegnassero adesso il proprio tempo. Le cose giuste da fare potrebbero essere tre.

1) Cominciare a predisporre la messa in sicurezza delle proprie aziende, attendendo o cercando di prevedere i vari decreti che verranno sicuramente emanati al riguardo e di cui se ne sta parlando da settimane in vari webinar e dirette social di settore (o verticali, come direbbero gli esperti). 

2) Fare formazione, sia per sé, sia per i propri dipendenti e collaboratori (chiedete alla riminese Teamwork le richieste e adesioni che arrivano…).

3) Creare spirito di comunità tra colleghi per scambiarsi opinioni e creare condivisione.

Su quest’ultimo punto è bene soffermarsi.

Gli ultimi due decenni ci hanno confermato, come non mai, che l’innovazione passa per la condivisione.

Sicuramente, il prossimo futuro dimostrerà che la condivisione sarà lo strumento più efficace per la nostra necessaria rinascita.

Quindi parliamoci, sentiamoci, confrontiamoci…

L’articolo è uscito anche sul Corriere di Romagna.

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Il complottismo? Una figata…

Il mio rapporto con il complottismo ha a che fare con la curiosità… e la creatività.

Il fenomeno mi interessa.

Ogni tanto sull’argomento parlano gli esperti… e a me piace prendere appunti.

I concetti che ho imparato sono secondo me interessanti.

In primis, tutto questo complottismo è una caricatura della razionalità. Abbiamo infatti bisogno di creare l’idea del complotto per muoverci all’interno di una complessità che non capiamo.

Il nostro cervello è costretto a fabbricare il falso proprio per difendersi… e difenderci. Quindi non è una questione di essere scemi: abbiamo bisogno di cercare di sopravvivere.

Il complottismo è figlio di questo bisogno e (cosa che credevo) non è una sorta di patologia. D’altronde ci rendiamo tutti conto che abbiamo l’abitudine di costruire continui ricordi falsi: è una nostra necessità.

Modifichiamo i nostri ricordi per fare in modo che il nostro passato non sia contraddittorio con la nostra attuale personalità, evitando così di entrare in un cortocircuito, nei casi in cui la personalità che ci siamo costruiti non combaci con le vicende che abbiamo vissuto.

La conclusione di questi ragionamenti/appunti è affascinante: il falso è stato creato per farci stare bene.

La storia è piena di falsi non solo a causa del complottismo, ma anche per aiutarci a capire meglio.

Abbiamo bisogno infatti anche di avere delle visioni romantiche di quello che è successo… quindi romanziamo il nostro passato per nostra comodità e beneficio.

Nel film del 1995 Braveheart di Mel Gibson, vincitore di 5 Oscar, si narrano le epiche vicende del popolo scozzese nel XIII secolo.

Le necessità romantiche hanno costretto l’autore ad alcuni cortocircuiti storici che hanno messo in fermento molti critici. Infatti, con il lodevole obiettivo di dare enfasi al senso di nazionalismo scozzese, sono stati inseriti nel film due elementi improbabili: il kilt e le cornamuse, che al tempo ancora non esistevano.

Sempre a proposito di miti da sfatare, tirerei in ballo i Cosacchi.

I Cosacchi sono quella popolazione che, per vicissitudini storiche, si è trovata a far parte prima del Grande Impero sotto la Zar russo, poi sotto il Comunismo di Lenin e Stalin.

Negli anni della Guerra Fredda, era famosa la frase “Se passa il Comunismo, ci troveremo i Cosacchi ad abbeverare i loro cavalli nella Fontana di Trevi” (frase, sembra, attribuibile a San Giovanni Bosco). La metafora, azzeccatissima sul piano della comunicazione, presenta anche qui un cortocircuito storico.

Nel libro “Le favole e la politica“, Stefano Pivato ci ricorda che i Cosacchi sono sempre stati nemici della Russia Comunista e sono stati vittime degli stermini etnici stalinisti. 

Hanno addirittura stretto alleanza con Hitler nel tentativo di invasione nazista in Russia. Malgrado tutto questo, il mito dei Cosacchi è stato usato da Stalin per alimentare il mito del coraggio e il mito rurale della grande Russia.

Quindi in sintesi, “mentre il regime sovietico procedeva alla loro eliminazione, sul piano propagandistico continuava a esaltarne il mito romantico“.

Dai, lo sappiamo: le fake news non sono un’invenzione dei nostri giorni.

E a proposito di questi nostri giorni, il complottismo attorno al Coronavirus si sta nutrendo alla grande.

Ce n’è di tutto e di più. Ma è sempre stato così. E dalla creazione di Internet in poi, la proliferazione è stata esponenziale.

Anni fa mi incuriosì molto lo scenario occulto/esoterico della Tav in Val di Susa.

Provate a fare una ricerca sul web e scoprirete, casomai non lo sapeste già, che la TAV è frutto di un disegno malefico, per colpire a morte quello che è il maggiore chakra (nodo energetico) del nostro continente.

La teoria è semplice: attraverso la costruzione di tunnel, le forze del male vogliono inserire barriere di piombo e amianto con il fine di interrompere la linea retta energetica del bene che dall’Abbazia di Mont Saint Michel passa dall’Abbazia di Val Susa, dal Santuario di Monte Sant’Angelo sul Gargano, per arrivare (almeno così mi sembra…) a Santa Sofia a Istanbul .

Ma la Val di Susa non è arida di sorprese.

Accanto all’Abbazia si erge per oltre i mille metri il mitico Musimè, un vulcano a riposo, luogo di alieni, lupi mannari e leggende misteriose (tra cui l’esilio di Erode), che gli è valso l’ambito titolo di montagna più misteriosa d’Italia. D’altronde, non c’è da stupirsi: siamo appena a 20 km da Torino, città del triangolo della magia nera, con Lione e Ginevra.

Vogliamo poi parlare dell’11 Settembre, dove le teorie esoteriche della lotta del bene contro le forze del male hanno invaso anche i media generalisti?Ricordate le foto delle Torri Gemelle dove dalle fiamme si intravvedevano i peggio demoni?

Il complottismo esoterico non ha risparmiato neanche il marketing. Gli esempi non li faccio, ma vi consiglio di “cazzeggiare” in rete per scoprire che c’è chi riconduce marchi prestigiosi o alla venerazione per Saturno, divinità crudele e oscura, o alla simbologia massonica, etc.

Per me che da ragazzo ho letto due volte “Il Mattino dei Maghi“, tutto questo è massima goduria.

Beh, che c’è di male? 

C’è chi guarda gli horror, chi segue Gomorra… 

Invece a me piace il realismo fantastico.

Visibile anche sul sito del Corriere di Rimini a questo link.

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Fermi tutti: questo è un esperimento sociale

L’altro giorno, su indicazione di mio figlio, ho assistito a una diretta Instagram del professore Giovanni Boccia Artieri, di cui mi pregio essere amico.

La diretta era una sorta di dialogo intervista con Paolo Iabichino, creativo, pubblicitario, scrittore e genio del nostro tempo.

Iabichino l’ho conosciuto grazie a “Scripta Volant“, divertente e istruttivo saggio uscito nel 2017.

Dal dialogo tra i due sono emerse varie cose interessanti e, c’era da prevederlo, diverse parole d’ordine.

In primis, almeno per me, BONIFICARE L’IMMAGINARIO.

Si è approdati a questo dall’analisi del calo di aggressività e rancore nei post di queste ultime settimane.

Il trauma sta contribuendo a questo.

“Un ecosistema complesso come il nostro, ha bisogno di un trauma” per provare a fare ordine in un mondo pieno (troppo pieno) di contraddizioni.

Parole sante.

Ultimamente su Sky ho visto Another Happy Day, film del 2011 premiato al Sundance.

La storia vede come protagonista un diciasettenne un po’ deviato che si trova costretto a partecipare a un matrimonio.

Il suo contesto familiare è super incasinato e particolarmente teso.

A un certo punto il ragazzo afferma alla madre, una fantastica Ellen Barkin, che non potrà essere certo un matrimonio a contribuire a rasserenare i rapporti, ma piuttosto un funerale.

E così sarà, alla fine del film, con la morte del nonno.

Il trauma, appunto.

In questi giorni ho finalmente preso in mano “Possiamo salvare il mondo prima di cena“, il best seller di Jonathan Safran Foer.

Il teorema di Foer è semplice…

Abbiamo compromesso il pianeta e qualunque cosa facciamo, è troppo tardi… e ritiene che la crisi climatica è direttamente proporzionale alla nostra capacità di credere.

Una delle genialate del libro è il parallelismo con la vicenda dello sterminio del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale.

C’è un passaggio stupendo, quando un testimone degli accadimenti in Europa, dopo un viaggio pericolosissimo, arrivò a Washington nel 43 dove incontrò uno dei massimi giuristi americani, anch’esso ebreo, tale Felix Frankfurter.

Frankfurter, allibito, non mise in dubbio la veridicità dei fatti, ma ammise la propria incapacità di credere a quella verità.

Ovvero: non aveva abbastanza elementi da rimanere emotivamente scosso.

E qui arriva la sentenza di Foer: per mobilitare le persone occorre che l’argomento diventi una questione emotiva.

Sono in molti che hanno acquisito la cognizione che il nostro standard di vita non è compatibile con la sostenibilità del pianeta.

Io sono uno di questi.

Eppure, come afferma Foer, sto facendo ben poco per colmare i gap.

Perché?

Perché non sono abbastanza coinvolto emotivamente.

Il Covid 19 è un acceleratore emotivo.

E questa cosa – parole di Iabichino e Boccia Artieri – ci sta permettendo di riconsiderare le priorità.

La paura (il dolore, la sofferenza, le perdite) che ci sta generando il Coronavirus ci ha fatto toccare con mano le nostre fragilità.

Ci fa capire ogni minuto l’importanza delle cose che credevamo scontate.

A proposito di cose scontate…

L’altro giorno – non ricordo su quale sito – è stato lanciato un gioco, che cita come segue: hanno scoperto un nuovo numero tra il sette e l’otto e tocca a voi disegnarlo.

Pazzesco! Difficilissimo!

Non avevo mai pensato che inventare un numero fosse così disarmante: ti trovi davanti un vuoto cognitivo.

Non sai dove cominciare, come impostare, dove arrivare…

Almeno questo è l’effetto che mi è arrivato.

Eppure, cosa c’è di più scontato dei numeri?

Quindi dicevamo: bonificare l’immaginario.

Ovvero, rigenerare la nostra idea di mondo.

È questa l’eredità che ci consegna il Coronavirus?

Se così fosse, siamo davvero di fronte a un esperimento sociale.

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Visionari, premonizioni, oroscopi

Da una parte Bill Gates, dall’altra l’astrologo Branko.

Del primo si parla in questo periodo, di quando si è presentato sul palco di un Ted Talk per i classici 8 minuti che questo genere di eventi concedono per portare una propria testimonianza. Era il 2015 ed entrò in scena spingendo un fusto metallico, quelli tipici utilizzati per contenere beni di prima necessità, nel timore di un attacco nucleare, affermando: “Il pericolo è un altro” e parlando di catastrofi possibili per il futuro, invece del solito fungo atomico, mostrò l’immagine di un virus.

Poi l’astrologo Branko…

Lo sapevate? Sembra lui sapesse.

L’ha riportato Dagospia, il sito dell’amico Roberto D’Agostino. Ecco qua il link.

Branko aveva previsto la catastrofe Coronavirus.

Ecco cosa disse l’astrologo nella prefazione al suo oroscopo 2020, scritta a inizio dicembre: “Il quadro astrale dell’anno prossimo si è verificato prima della seconda guerra mondiale. Molte volte non crederemo a quanto vedranno i nostri occhi o sentiranno le nostre orecchie. Serpeggerà una nuova e mai provata agitazione il primo giorno di primavera. Sarà una prova di resistenza per tutti noi, ma poi…“.

Pazzesco, vero?

Allora ho digitato su Google “Nostradamus Coronavirus”… e ho trovato al primo posto una news dell’ADNkronos, l’autorevole agenzia stampa internazionale che riporta la dichiarazione di Renucio Boscolo, numerologo e scrittore, considerato tra i più esperti studiosi delle profezie del veggente cinquecentesco.

L’emergenza mondiale del Coronavirus era stata prevista da Nostradamus. In alcuni suoi versi si fa esplicito riferimento a quanto sta avvenendo“.

In particolare, “nella sestina 11-30 si parla chiaramente di un medico e di un grande male che porterà infermità da costa a costa“…

Infine: “Ci sono troppi ignoranti di mestiere che fanno i ciechi e sordi“, aggiunge Boscolo, che si autodefinisce “sentinella e discepolo di Nostradamus”, puntando il dito contro coloro “che si appellano a quartine distorte che nulla hanno a che fare con la determinante precisione di questi versi specifici“.

Vabbè…

E Ronald Reagan?

È risaputo che Ronald e Nancy Reagan seguivano regolarmente l’oroscopo e relativi consigli, al punto che varie volte la data di alcuni loro viaggi è stata cambiata per evitare la cattiva sorte. Il Presidente ha negato in varie occasioni la veridicità di questa notizia: “Posso assicurare che nessuna decisione da me presa viene dal cielo“. Ma l’argomento è poi diventò così serio che la Casa Bianca fece anche intervenire il suo portavoce: “Il Presidente non consulta un astrologo“. Ma la verità era un’altra.

Con l’elezione di Reagan alla Casa Bianca, Nancy prese l’abitudine di telefonare sempre più spesso a Joan Quigley, l’astrologa californiana poi definita l’eminenza grigia della Casa Bianca. Quando poi l’astrologa le mostrò che le stelle avevano previsto l’attentato contro il presidente del marzo 81, la First Lady cominciò a interpellarla ossessivamente su tutto. Seguendo i consigli della Quigley, Reagan scelse il giorno in cui dichiarare la sua ricandidatura alla presidenza, in che giorno tenere determinate conferenze stampa, quando partire o tornare da un viaggio. Nancy consegnò addirittura al capogabinetto un calendario da rispettare: 

  • 20 gennaio, niente fuori dalla Casa Bianca, possibile attentato; 
  • 20-26 febbraio, fare molta attenzione; 
  • 7-14 marzo, brutto periodo; 
  • 12-19 marzo, niente viaggi; 
  • 21-28 aprile, stare a casa…

E via di seguito. 

Reagan teneva a sua volta un calendario in ufficio, segnando con tre colori differenti i giorni buoni, i cattivi e quelli così così per le attività del Presidente, in base all’oroscopo fornito dalla Quigley.

A questo punto non si può non parlare di lei, Sylvia Bowne, la scrittrice, veggente e medium, che in un libro pubblicato nel 2008, End of a days, predisse: “Entro il 2020 gireremo con mascherine e guanti per via di un’epidemia di polmonite“.

A pagina 210 della versione originale in inglese si legge: “Entro il 2020 diventerà prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma a causa di una epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, quasi in maniera più sconcertante della malattia stessa improvvisamente svanirà con la stessa velocità con cui è arrivata, tornerà all’attacco nuovamente dopo dieci anni, e poi scomparirà completamente“.

La notizia è da settimane sul web e la riprende anche il Fatto Quotidiano: Ecco il link.

Non male.

Il quotidiano cazzeggio in rete, spesso ci obbliga a districarci tra i vari complottismi: in primis quelli sempre di gran voga, ovvero quello Giudaico Massonico e quello del Nuovo Ordine Mondiale, con Rothschild nei posti di comando.

E poi è un attimo arrivare all’esoterismo, che, se sei in vena buona, ti diventa affascinante.

Avete mai letto la teoria per cui il marchio di Nike è un omaggio a Saturno?

Ma i chiaroveggenti?

Loro, invece, ce li dobbiamo andare a cercare.

La ricerca in rete ci mostra un quadro veramente ampio e molto variegato: in questo contesto ci troviamo, ad esempio, che Merlino, i Maya e Nostradamus giocano nello stesso campionato di Papa Giovanni e le sue profezie… e districarsi è un bel casino.

Un umile consiglio?

Direi di lasciare perdere…

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Se il virus fosse l’antivirus

E se questo virus fosse l’antivirus?

L’emergenza globale del coronavirus – proporzionata o sproporzionata che sia – ha innescato vari effetti, alcuni dei quali potrebbero essere considerati in maniera… diciamo originale.

Il teorema è il seguente…

Nel caso fossimo convinti che il modus vivendi che il mondo sta adottando all’insegna dello sviluppo e della modernità sia controproducente per il benessere dell’umanità, allora il coronavirus può essere – provocatoriamente – visto come un amaro, ma necessario antidoto.

Se ci facciamo caso, in questi ultimi giorni abbiamo avuto modo di toccare con mano che l’argomento salute ha messo in quattro e quattr’otto in secondo piano tutte quelle che sono le priorità che fanno girare il mondo, come la finanza e l’economia.

Attraverso scelte e decisioni concrete, nazionali e transnazionali, si sta condizionando l’economia globale in maniera importante, forse drammatica.

Di botto, il mondo ha ribaltato la scala delle priorità, ridimensionando – e non di poco – tutte quelle argomentazioni che fino a poco fa erano in cima ai nostri pensieri. 

Come dire: ora c’è altro di più importante e vitale.

E in questo contesto, come per incanto, ci troviamo nella posizione di dover rallentare, fermarci… e magari riflettere.

Riflettere sui soliti temi di sempre, come la sostenibilità, i corretti stili di vita, la prevenzione… ma anche su temi “nuovi”, come la gestione dell’informazione, la credibilità delle fonti, etc.

Prima, a inizio del testo, ho parlato di antivirus.

Se il nostro modello e stile di vita per alcuni è vissuto come un “virus” da debellare, o quantomeno da ridimensionare, il coronavirus ha tutte le carte in regola per rappresentare provocatoriamente l’antivirus.

Al di là dei complottismi (per carità), delle sovraemergenze mediatiche, dei cortocircuiti sanitari, la vicenda che stiamo vivendo giorno per giorno (anzi, ora per ora), ci consegna un’umanità debole, ma in grado di decidere per il bene di tutti.

Certo, è un mix di paura e buon senso quello che sta facendo fermare il mondo, con l’aggiunta di un’ancora acerba dimestichezza verso il real-time mediatico/informativo.

Ma è indubbio che questa cosa avrà il potere di lasciare un segno nelle nostre coscienze, che ognuno – fortunatamente – sarà libero di interpretare come crede.

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Il Black Friday per un mondo migliore

Ne stanno parlando in tanti della schizofrenia di questo venerdì.

Da una parte il Black Friday, dall’altra il Friday For Future.

Cos’è, una patologia del nostro tempo? O siamo sempre stati così?

Non so… ma punto a credere più alla seconda ipotesi.

L’importante è averne la consapevolezza.

Il Black Friday possiamo definirla una festa laica. Può essere occasione per acquistare quello di cui hai bisogno e che non ti puoi permettere… ma può anche essere la causa scatenante di inutili impulsi al consumo, per cui ti compri il phon o la lavatrice nuova, quando per le tue necessità sei già ampiamente a posto.

Il tutto in un contesto in cui le merci viaggiano, i soldi girano, ma i margini di guadagno sono ampiamente ridotti… ed assisti, da consumatore, al dibattito di commercianti e imprenditori su se ne vale la pena, o no.

C’è chi, a ragione, vede il Black Friday come l’altra faccia del Friday For Future, ma questo non vuole dire che i militanti simpatizzanti di Greta, oggi non carichino un carrello su Amazon.

È una contraddizione? E se lo è, ne siamo consapevoli? 

Lo scenario non è nuovo.

Siamo abituati a surfare tra gli stili della moda e i lifestyle: si abbinano le Dr Martens al borsone di Vuitton, ci sono i Boy Scout con i tatuaggi punk, c’è chi ha l’auto elettrica e possiede anche il super Suv. E c’è chi acquista un low cost per Madrid a 30 euro, per poi cenare in uno stellato che costa mezzo stipendio…

È tutto molto strano, anzi complesso.

Ma in fondo, a che serve dirci questo?

Forse potrebbe servire ad averne almeno consapevolezza.

Potrebbe servire ad acquisire coscienza che i nostri gesti quotidiani rispecchiano e racchiudono magari le contraddizioni, le voglie, le frenesie, i pruriti che spesso vediamo solo negli altri, magari denunciandoli con strabordante aggressività attraverso i nostri post sul web.

Il tema del rancore è stretta attualità (anche il Censis ce l’ha spiegato bene).

Forse una via di uscita la possiamo trovare pensando che le contraddizioni e i cortocircuiti etici che viviamo, siano occasioni per metterci alla prova: esami da affrontare per arrivare al famoso “mondo migliore”.

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Non è tutto Populismo

È da un bel po’ che utilizziamo costantemente il termine populismo.

Prima grazie a Berlusconi, la Lega Nord e Le Pen… poi grazie a Grillo, Salvini, Fabrage e la Marine le Pen… poi adesso Trump e la Brexit…

Ma quand’è che un partito, un attore politico o una proposta politica possono essere chiaramente e inequivocabilmente etichettati con l’aggettivo populista?

La domanda, tra i tanti, se l’è posta Diego Ceccobelli, ricercatore in Comunicazione Politica presso la Scuola Normale Superiore, che ha pubblicato le sue considerazioni sul sito valigiablu.it (il gancio per me è stato un post del sociologo Alberto Abruzzese).

Ceccobelli prima è partito dalla definizione di populismo, ovvero “un’ideologia che considera la società divisa tra: da una parte le persone oneste, dall’altra le elite corrotte”.

Questa ideologia ritiene che la politica debba essere un’espressione della volontà del popolo.

Poi Ceccobelli ci ha fatto capire che con il termine populismo, noi erroneamente intendiamo un po’ troppe cose…

Primo errore: non è corretto confondere personalizzazione con populismo.

Ad esempio, la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi e l’aver creato un partito legato strettamente alla sua persona, non significa populismo.

Secondo errore: non è corretto confondere Politica Pop con populismo.

Le interviste di Berlusconi, Renzi o Salvini sui settimanali di gossip?

Oppure le partecipazioni di politici al Processo di Aldo Biscardi?

Non si tratta di populismo, anche se sono modalità assai distaccate da uno stile comunicativo istituzionale.

Così come la famosa intervista di Mario Monti alle Invasioni Barbariche del 2015 su La7, in cui sorseggiò una birra e “adottò” il cagnolino Empty…

Certo, la politica si è data al Pop, ma non è populismo.

Terzo errore: non è corretto affermare che tutti i nuovi partiti popolari siano populisti.

Negli ultimi 20-25 anni, sia in Italia che all’estero, l’avanzata di nuovi partiti ci porta ad associarli al populismo.

Nello stesso bollirone, sono stati infilati Forza Italia, la Lega Nord, il Movimento 5 Stelle, Podemos in Spagna, lo UKIP in Gran Bretagna, l’Alternative für Deutschland in Germania… Partiti differenti, di destra e di sinistra, tutti oramai etichettati con l’epiteto populista.

Nel dibattito pubblico quotidiano, populismo è pertanto spesso associato a questi nuovi attori politici non tradizionali e, a vario livello, anti-sistema.

Quarto errore: è errata l’equazione Demagogia uguale a populismo.

Anche quando un attore politico prova a ottenere il consenso dei cittadini con promesse difficilmente realizzabili (demagogia, appunto), non starebbe producendo del populismo.

Quindi, in sintesi, Ceccobelli vuol dire che né la personalizzazione, né l’adottare strategie Pop, né l’utilizzo della demagogia, hanno alcuna relazione sostanziale con il concetto di populismo.

Possono quindi essere “scientificamente” definite populiste unicamente quelle forze politiche che sviluppano un programma e messaggi nei quali il popolo (visto come una unità unica e indivisibile e portatore di valori positivi) viene opposto alle élite (politiche, economiche, finanziare, etc.) considerate come corrotte.

Ceccobelli, bravissimo, ha anche portato degli esempi…

In nessuno dei quattro casi qui sopra riportati, è presente un messaggio populista.

La partecipazione di Renzi ad Amici, l’intervista di Salvini su Oggi, oppure Enrico Rossi (il governatore della Toscana) che pubblica una foto sulla sua pagina Facebook mentre munge una mucca…

Queste sono una semplice espressione di Politica Pop (al riguardo, mi devo andare a leggere il libro di Gianpiero Mazzoleni e Anna Sfardini uscito nel 2009).

E non c’è alcun tipo di populismo nel post pubblicato sulla pagina Facebook del Movimento 5 Stelle, in cui è semplicemente presente una fortissima personalizzazione condita con una comunicazione pop, come testimoniato dalla presenza del cuoricino.

Viceversa, i quattro post Facebook seguenti, indicano quattro tipici esempi di populismo, secondo la letteratura scientifica.

Il post del Movimento 5 Stelle è populista, in quanto presenta un richiamo diretto ed esplicito alla volontà popolare da opporre a una non specificata élite, che non starebbe facendo gli interessi del popolo.

Il post della Lega Nord attacca apertamente le élite (in questo caso quelle politiche europee e finanziarie).

Nigel Farage, incarna la definizione di populismo parlando di popolo contrapposto alle élite ignoranti e corrotte.

Infine, il post di Salvini è populista, in quanto vede nell’ALTRO diverso da NOI, una potenziale minaccia alla presunta omogeneità del POPOLO che LUI intende rappresentare.

Per la letteratura scientifica diventa pertanto fondamentale non confondere i termini, come “personalizzazione“, “politica pop” e “populismo“, che denotano fenomeni completamente differenti.

La personalizzazione ha a che vedere con l’aumento della visibilità e della rilevanza dei leader a discapito dei partiti…

La politica pop con la commistione tra la politica e la cultura popolare…

Mentre il populismo è una ideologia con caratteristiche precise e ben definite, ossia (ribadiamolo ancora) il considerare “la società divisa in due gruppi omogenei, le persone oneste contro le élite corrotte”.

Delimitare chiaramente i confini che dividono i concetti di “politica pop” e “populismo” è uno degli aspetti più importanti per cercare di definire al meglio il populismo.

Ma il capolavoro di Ceccobelli è il grafico…

Come si vede nel grafico, ci sono quattro tipi di attori politici:

  1. populista-pop
  2. non populista-pop
  3. non populista-non pop
  4. populista-non pop.

Questo significa che non tutti i leader pop sono al contempo populisti, e viceversa.

Andiamo con gli esempi…

Matteo Renzi, Barack Obama e Justin Trudeau appartengono ad esempio al tipo 2, visto che sono forse tre dei leader contemporanei più pop, ma non sono associati dalla letteratura scientifica al concetto di populismo. Tutti e tre, sebbene con differenti modalità e intensità, ricorrono alle persone e alle vicissitudini concernenti la propria vita privata. Utilizzano e interagiscono con i media, le retoriche, gli attori stessi appartenenti al mondo delle celebrità della televisione, della musica, dello sport e del cinema. Oppure riproducono e interpretano gli stili di vita e la quotidianità dei cittadini, o gli usi e costumi e le pratiche dominanti della cultura popolare di riferimento. Renzi, Obama e Trudeau sono pertanto tre leader politici Pop ma non populisti, visto che nei loro programmi e messaggi, il popolo non viene idealizzato come una unità unica e indivisibile da opporre a élite corrotte e incapaci di risolvere i problemi dei cittadini.

Marine Le Pen e Alexis Tsipras sono invece considerati due esempi emblematici di leader populisti, ma non Pop (tipo 4).

Berlusconi, Grillo e Salvini appartengono invece al tipo 1, essendo tre leader sia Pop, sia populisti.

Infine, Massimo D’Alema, Angela Merkel e Francois Hollande sono tre tipici esempi di leader né Pop, né populisti (tipo 3).

 

Ceccobelli conclude scrivendo che populismo sia oramai un termine “perso” e “da buttare”.

Una parola incapace di descrivere con assoluta chiarezza alcun fenomeno politico, quindi inutile, se non addirittura controproducente.

Meno associamo leader come Salvini, Grillo, Iglesias, Tsipras, Farage, Le Pen o Trump al concetto di populismo, più, forse, saremo in grado di capirne il successo e soprattutto il significato storico e politico.

Starà alla comunità scientifica, agli studiosi di comunicazione e politica, trovare nuove terminologie e a offrirci nuovi strumenti per comprendere ed eventualmente difenderci.

 

7 Febbario 2017

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La Twitter Revolution non esiste?

Ci troviamo spesso ad avere a che fare con parole nuove, capaci di esprimere concetti che prima non conoscevamo.

Il termine post-verità (parola dell’anno per l’Oxford Dixionary) non è scappato fuori per caso.

L’elezione di Trump e la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Euro, hanno portato moltissimi esperti ad affermare che sono cambiati i paradigmi, i filtri, i metodi con cui avviene la persuasione.

 

Un bellissimo articolo di Fabio Chiusi su L’Espresso del 27 novembre scorso, parla di una disciplina che sta vacillando, in quanto un evento ne ha appena riscritto i confini: l’evento è l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, mentre la disciplina è lo studio della propaganda.

L’articolo è ricco di citazioni, ad esempio Castronovo, docente della University of Wisconsin-Madison: “L’elezione di Trump ha cambiato il modo in cui pensavamo circolasse l’informazione, come le persone comunicano, ma anche come processano e diffondono la propaganda… è un drammatico campanello d’allarme per molti studiosi di comunicazione politica e retorica“.

Il mondo dei media è impegnato a chiedersi se Trump è alla Casa Bianca per colpa dei social network, delle notizie false che vi circolano, attraverso la viralità di video e “memi“, portandoci a quella cosa chiamata post-verità.

Ecco una efficace spiegazione di post-verità: quando i fatti oggettivi contribuiscono meno alla formazione dell’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle credenze personali.

Il termine post-truth si dice che sia apparso la prima volta nel 1992 sul magazine The Nation, in cui il drammaturgo serbo-americano Steve Tesich faceva riferimento allo scandalo Iran-Contra di qualche anno prima e ai traffici illegali di armi tra gli Stati Uniti e l’Iran.

Facciamo due esempi di post-verità, legati alle presidenziali americane.

I social network ad un certo punto hanno diffuso la notizia che Hillary Clinton avesse venduto le armi all’Isis. La notizia riportava sedicenti (false) fonti da Wikileaks (i famosi file resi illegalmente ufficiali da Assange).

Sempre nei confronti di Hillary Clinton, è stata clamorosa la Cospirazione del Ping Pong Comet, la pizzeria di Washington che, secondo una fake news, era al centro di una rete internazionale di pedofilia riconducibile alla candidata repubblicana e al suo ex capo campagna John Podesta. Il loro scambio di email con il proprietario della pizzeria per organizzare una raccolta fondi, diventò nel giro di pochi giorni la prova di un’organizzazione criminale con risvolti quasi satanisti. E per poco ci scappava una strage (un giovane padre giustiziere, è entrato un giorno in pizzeria, sparando armato di mitra).

Bene, ecco cosa si stanno chiedendo gli studiosi di comunicazione: quali conseguenze hanno generato queste false informazioni? Quanto sono state strategiche a favore di Trump? Quale può essere una strategia efficace per contrastare fake del genere da parte di chi li subisce?

Un altro probabile esempio attuale?

La diffusione della meningite è una causa delle migrazioni delle popolazioni africane…

Il rapporto tra comunicazione, strategie e falsi contenuti è sempre stato alla base del lavoro di chi si occupa di propaganda.

Harold Lasswell già nel 1941, parlava di un mondo in cui l’opinione pubblica affronta con sospetto ogni fonte di informazione, convincendosi che non ha senso cercare il vero negli affari pubblici.

Negli anni 20, era stato Walter Lippmann, giornalista e poi padre degli studi moderni sulla propaganda, a coniare la definizione fabbricare il consenso.

In sintesi, ecco come la pensava Lippmann… ed è perfettamente attuale oggi:

  • siamo nell’era del sovraccarico informativo e dell’economia dell’attenzione.
  • nel mondo ci sono troppe informazioni e l’uomo vi fa fronte, per natura, attraverso i pregiudizi
  • ma poi ci pensano i media a dare una forma a informazioni e contenuti.

 

Quindi sono i media a colmare la distanza necessaria tra l’evento e il pubblico… sono i media che rendono possibile la propaganda:

  • i media svolgono una funzione di filtro.

 

Cos’è dunque successo con Trump?

Fabio Chiusi cita il filosofo sloveno Slavoj Žižek che afferma: “La fabbrica del consenso si è spezzata“.

Anche qui, ecco una sintesi del pensiero di Žižek:

  • nel nostro ecosistema informativo, i media perdono autorevolezza
  • chiunque può diventare un media grazie a Facebook, Twitter, YouTube…
  • quindi la distanza tra l’evento e il pubblico si azzera.

Ovvero, il filtro dei media non serve più:

  • ciascuno ha il proprio filtro, che si nasconde sotto forma di un algoritmo, vuoi sia di Google, o di Facebook, etc…

Qual è quindi oggi lo scenario?

Ora gli Stati Uniti si trovano a un momento importante, in cui la macchina che costruisce il consenso si è rotta:

  • rotti i partiti tradizionali, di cui Trump rappresenta la negazione…
  • rotti i media, che lui e i suoi detestano…
  • rotte le rappresentanze sociali… rotto il futuro… rotta la democrazia, che non interessa a oltre due terzi dei Millennials americani.

 

L’elezione di Trump ci ha ancora una volta mostrato che esiste una realtà diversa da quella che ci mostrano i media.

Questa realtà a volte riaffiora.

Qualcuno si ricorda della maggioranza silenziosa che fece vincere le elezioni a Nixon?

Bene, quella realtà Trump l’ha fatta uscire fuori ancora una volta.

Importante quello che dice Mike Cernovich, il maestro dei memi pro Trump: “Se tutto è narrazione, allora c’è bisogno di alternative alla narrazione dominante“.

L’articolo su L’Espresso è proprio interessante…

Chiusi scrive che la propaganda, fino a oggi, non era materia di scienziati, ma di artigiani.

Ma oggi viviamo nell’era dei Big Data e della profilazione totale e quando parliamo di propaganda, sempre più intendiamo numeri, correlazioni, dati.

Si contano gli accessi, i like, le condivisioni, le pagine viste…

E questo è un lavoro di scienziati…

 

Ma ragionando solo di numeri, si può rischiare di sbagliare qualche analisi.

Grazie alla Primavera Araba del 2011 (definita da più parti come la Twitter Revolution), i social media venivano generalmente considerati come promotori di democrazia…

Quindi non di nuovi autoritarismi…

E qui l’articolo di Chiusi pone una domanda interessantissima: adesso come la mettiamo con Trump? Com’è quindi possibile che la Twitter Revolution abbia premiato proprio lui?

La conclusione di Chiusi non mi trova d’accordo, in quanto afferma che entrambe le retoriche sono fallaci.

Quindi, secondo lui, è falso che 5 anni fa sia stato Twitter a provocare rivolte democratiche, così come è falso oggi affermarlo per Trump.

Io penso che i social network siano uno strumento e vince chi meglio li usa.

È chiaro che i contenuti populisti nei social network trovano un’autostrada… ma non solo quelli, come ha appunto dimostrato la Primavera Araba.

Che i social network siano uno strumento per il populismo è una verità, ma è un’affermazione assai limitata… e anch’essa populista.

11 gennaio 2017

 

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Hipsters, Cosacchi e falsi miti

Era il 1975 e i Supertramp esplosero nelle hit parade di tutto il Pianeta.

Ricordate cosa cantavano? “Quand’ero giovane, la vita mi sembrava meravigliosa, magica… poi mi hanno insegnato a essere sensato, logico, responsabile, pratico e mi hanno mostrato un mondo dove sarei stato affidabile, intellettuale, clinico, cinico. A volte quando tutti dormono, da uomo semplice mi tormenta una domanda: vi prego, ditemi cosa abbiamo imparato. So che sembra assurdo, ma ditemi chi sono“.

The Logical Song” ha fatto parte della colonna sonora di una generazione che comunque aveva dei punti fermi, se non fermissimi.

Ricordo che ad un esame di Storia della Sociologia, che tenni nel 1980, il Professor Braghin mi fece una domanda sul Marxismo, sottolineando in premessa, come l’Unione Sovietica fosse una pentola a pressione.

Usciti dall’aula, con gli altri studenti si provò a ragionare sulla presunta follia di quell’affermazione: una pentola a pressione? L’Urss?!?

Noi avevamo chiaro (lo credevamo) di cosa fosse la Destra e la Sinistra, Ronald Reagan e Breznev, Berlino Est e Berlino Ovest, i Cattolici e gli atei… Su certe cose, vedevamo poche pentole a pressione. Eppure sappiamo tutti come è andata… e non solo in Russia.

Oggi è saltato tutto.

Viviamo la società liquida, dove abbiamo dovuto in fretta imparare a nuotare e navigare.

Ditemi chi sono” quindi cantavano i Supertramp.

L’identità dell’individuo non è certo tema nuovo.

Nelle caverne abitate dai primitivi, si sono trovate numerose tracce di impronte di mani. Citando Duccio Canestrini: “Cosa c’è di più individuale di una manata?“.

E questo vale più che mai oggi, nell’era del riconoscimento vocale, o dello studio del DNA, dove basta una traccia microscopica per sapere tutto di te.

Nella nostra ricerca individuale, abbiamo spesso trovato rifugio nello sguardo verso il passato, aggrappandoci alle tradizioni, agli antichi valori.

Come ha detto il grande Bernard Cova, il progresso ci ha portato dove volevamo arrivare per poi accorgerci che abbiamo bisogno anche di altro, che magari abbiamo perso per strada.

Quindi ecco il fenomeno del ri-radicamento, che comporta l’andare a ritroso, a rintracciare punti fermi a cui attaccarci. E pur di trovare qualcosa a noi utile, a volte le tradizioni addirittura ce le inventiamo.

C’è un libro che non ho letto, Eric HobsbawmL’invenzione della tradizione“, che sento spesso citare e che in sintesi (fonte Wikipedia) ci parla di tradizioni inventate come “l’elaborazione di una risposta a tempi di crisi, a epoche di rapido cambiamento sociale, alla necessità di dover fronteggiare nuove situazioni“. 

Questo aggrapparci al passato, ha a volte dei riscontri abbastanza buffi.

Un esempio illuminante l’ho ascoltato da Andrea Pollarini.

L’Aprilia ha lanciato anni fa l’Habana, lo scooter con un design spiccatamente retrò, quasi fosse il recupero della scocca di un motociclo tipico cubano degli anni 50… La cosa strana è che a Cuba non sono mai esistiti quel genere di motocicli. Ciò non toglie che il consumatore moderno abbia bisogno di immaginare che invece fosse così.

Barilla l’ha capito benissimo da tempo: nel surreale contesto che vede Antonio Banderas nei panni dello chef fornaio/pasticcere di campagna, il messaggio che Mulino Bianco vuol comunicare è che tutte le ricette sono frutto di un recupero di antiche tradizioni a rischio di sparizione.

Se facessimo una ricerca, potremmo scoprire che alcuni prodotti del Mulino Bianco non sono affatto legati alla tradizione… ma ciò non importerebbe più di tanto: quello che per il marketing conta è che l’idea possa reggere nell’immaginario collettivo.

Altro esempio, i Barbershop.

Riprendono in tutto e per tutto l’estetica delle antiche botteghe del barbiere… ma i saloni dei barbieri, una volta non erano così. Entrare in un Barbershop oggi significa vivere un’esperienza emotiva dal gusto retrò: oltre all’esigenza di aggiustarsi la barba, è questo che cercano i cosiddetti “nuovi hipster“, dando così forza alla loro identità condizionata dalle estetiche di moda.

Ok… ci troviamo quindi a volte a trovare consolazione in certezze inesatte: è un problema gravissimo?

Non saprei, ma ciò non toglie che ogni tanto ci farebbe bene dissacrare qualche mito, un po’ come ama fare il filosofo Galimberti.

Non certamente per il semplice gusto di polemizzare, ma giusto per dare un po’ più di credibilità e chance alla nostra contemporaneità.

Mi viene in mente Madagascar, il film di animazione in cui i pinguini riescono a scappare dalla zoo per tornare nella loro terra di origine, per poi, dopo varie peripezie, arrivare finalmente in Antartide… e scoprire che lì è uno schifo. Quindi abbandonano il freddo e il gelo per ritrovarsi a surfare alle Hawaii.

Sempre a proposito di miti da sfatare, tirerei in ballo i Cosacchi.

I Cosacchi sono quella popolazione (non è un’etnia, ma un popolazione formatasi da bande di mercenari meno di 2.000 anni fa) che, per vicissitudini storiche, si è trovata a far parte prima del grande impero sotto la Zar russo, poi sotto il comunismo di Lenin e Stalin.

Nel libro del mio illustre concittadino Stefano PivatoLe favole e la politica“, si ricorda come negli anni della Guerra Fredda (la più grande fiction della storia), era famosa la frase “Se passa il Comunismo, ci troveremo i Cosacchi ad abbeverare i loro cavalli nella Fontana di Trevi“. La metafora è sicuramente azzeccata sul piano della comunicazione, il messaggio passa alla grande: la scuola Vaticana è maestra da millenni.

La cosa curiosa che rileva Pivato è che i Cosacchi sono sempre stati nemici della Russia Comunista e sono stati vittime degli stermini etnici stalinisti. Hanno addirittura stretto alleanza con Hitler nel tentativo di invasione nazista in Russia. Malgrado tutto questo, il mito dei Cosacchi è stato usato da Stalin per alimentare il mito del coraggio e il mito rurale della grande Russia.

Quindi in sintesi, “mentre il regime sovietico procedeva alla loro eliminazione, sul piano propagandistico continuava a esaltarne il mito romantico“.

Fortunatamente la Storia non perdona.

La questione però sta nel come noi dobbiamo difenderci da questa confusione, dai falsi miti, dalle tradizioni che non stanno in piedi, etc.

Da parte mia ho cominciato da tempo a chiedermi se siamo sicuri di dover rimpiangere il passato.

E poi ha acquisito la consapevolezza che sono quasi sempre le certezze, e non le incertezze, a generare i mostri.

I mostri delle certezze…

Diventa facile in questo discorso identificare gli Hitler, gli Stalin, le ragioni della razza, i credo religiosi, etc.

Risulta ben più difficile scovare le certezze farlocche su cui ci radichiamo nella quotidianità, che non ci permettono a volte né di ascoltare gli altri, né di allungare la Visione, né di crescere per il bene di tutti.

Come spesso succede, le parole più efficaci le ha Umberto Galimberti… Dobbiamo risvegliarci dalla quiete apparente delle nostre idee mitizzate, perché molte sofferenze, molti disturbi, molti malesseri nascono proprio dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono più di comprendere il mondo in cui viviamo“.

 

20 Ottobre 2016

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L’attualità e gli opportunisti perpetui

Mi ha parecchio stimolato una bella chiacchierata con l’amico Gianluca Lo Vetro – giornalista, scrittore e grande esperto del settore moda – dove, da buon osservatore, mi ha fatto notare come da tempo l’attualità sia un valore che la moda non può più fare a meno di prendere in considerazione.

Più o meno, il suo discorso fila così: non siamo più nell’era in cui c’è un Valentino che “impone” il verde rigato… e di conseguenza tutti a fare il verde rigato.

Oggi le dritte le detta l’attualità.

In questo scenario, assume un ruolo determinante il consumatore post-moderno, il quale, grazie alla globalizzazione, è sempre più determinato a rimanere infedele e viziato… ed è quindi azzeccatissima la definizione di opportunista perpetuo, lanciata da Evgeny Morozov nel libro “Silicon Valley: i signori del silicio“, che mio figlio mi ha obbligato a leggere.

L’attualità mostra uno scenario in cui la moda è fortemente condizionata da una polarizzazione a forbice. Vale a dire che i brand del settore si stanno adoperando principalmente verso due richieste agli antipodi: da una parte l’extra lusso, dall’altra il lusso accessibile (low cost).

Qualche esempio significativo…

Chanel rimane sempre un brand di alto valore, anche se nel suo business assume sempre più rilevanza la sua cosmetica, come ad esempio i rossetti, accessibili (ovvero in vendita) al piano terra della Rinascente, così come in qualunque punto vendita Sephora del mondo.

D’altro canto, Laura Biagiotti continuerà sempre a investire nell’haute couture, al fine di tenere alto il proprio brand, funzionale alla crescita del suo fatturato, fortemente condizionato dal settore profumeria, accessibile a tutti almeno a Natale e a San Valentino.

In linea con questo sono le scarpe in corda di Dolce&Gabbana

E gli stivali di gomma di Valentino

Ovviamente il clou del concetto viene espresso dall’operazione di Lagerfeld per H&M… se ve lo siete perso, andatevi a vedere il video.

E che dire di quella di Jean Paul Gaultier per OVS?

Per carità, nella moda questo è sempre avvenuto: Dolce&Gabbana hanno giustamente creato D&G e non sono stati certo i primi a muoversi in questo senso.

Di lusso accessibile se ne parla da tempo anche nel mercato del gioiello, dopo lo “sdoganamento” dell’acciaio.

Per farsi un’idea definita del concetto, basta dare un’occhiata alla case-history di Marlù gioielli, oppure passare davanti a uno dei vari Marlù Store, come quello di Riccione sullo strategico viale Dante: l’immagine è quella di una moderna gioielleria… dove i prezzi in vetrina, ben evidenziati con gusto e maestria, riportano prezzi che spesso non arrivano a 20 euro per prodotti di forte appeal e di ottima fattura e qualità.

E acquistarli significa ricevere, compreso nel prezzo, un packaging regalo da fare invidia a Tiffany…


Ma la polarizzazione di questi anni sta veramente allargando la forbice.

Da una parte c’è sempre più gente che, pur seguendo e apprezzando la moda e i suoi prodotti di alto profilo, si chiede con che coraggio acquisto o indosso una borsa che costa più di 3 mila euro, anche se magari ne ho la possibilità.

Dall’altra, c’è invece chi mostra e ostenta… spesso senza possedere né gusto, nè stile.

La rincorsa all’attualità presuppone l’esigenza di cambiare.

E a volte sembra proprio una rincorsa… quasi che l’esigenza fosse di vivere un’attualità diversa ogni giorno.

Così come indossare un capo diverso ogni giorno sia un sogno che il mercato da tempo sta provando a concretizzare.

Per primo Zara, con il suo arrivo, ha modificato il concetto di riassortimento.

Lo Vetro faceva notare che se una volta gli arrivi erano massimo 4 all’anno, con Zara siamo passati ad almeno 12 ogni 6 mesi…

O Bag, con il suo franchising, e altri brand simili, ti permettono di cambiare capo (o almeno il suo aspetto) ogni volta che vuoi.

Intellettuali e osservatori come Lo Vetro è da un bel pezzo che ci fanno notare come il senso del tempo, soprattutto nei giovani, sia cambiato.

L’approccio liquido e epidermico si riflette in ogni aspetto.

Snapchat non è un fenomeno casuale.

Snapchat è l’applicazione che permette di scambiarsi foto e brevi video (max di 10 secondi) che vengono cancellati automaticamente al termine della visualizzazione. Permette inoltre di chattare con i propri amici in tempo reale e di condividere album pubblici di foto e video accessibili da tutti i propri contatti per un periodo di 24 ore. Come avrete saputo, nel 2016 è riuscito addirittura a superare Twitter in termini di utenti attivi giornalieri.

Per il lancio della campagna pubblicitaria della sua fragranza Guilty, Gucci ha utilizzato Snapchat, affidando la gestione del proprio account all’attore Jared Leto.

Guilty è solo presente, un presente continuo: è questo che vuole comunicare Gucci?


Esiste quindi una mal sopportazione del senso della storico?

Esiste una volontà di “vivere almeno un degno presente“, alla luce di un futuro che è meglio non svelare?

Come si spiega allora la ricerca estetica verso il passato che riscontriamo in tanti ragazzi e Millenials?

Potrei riferirmi a coloro che frequentano i Barber Shop, arredati con premurosa attenzione, dove, aggiustandoti la barba con 20/25 euro, vivi l’esperienza emotiva di varcare la soglia del tempo…

E sì: è un mondo complesso.

 

Vivere comunque il il senso dell’attualità ci affascina.

E questo l’hanno capito i grandi brand, applicando il Real Time Marketing, per cui l’attualità diventa contenuto.

È una case-history studiatissima il tweet di Oreo in occasione del black-out durante il Super Bowl del 2013.

Così come le iniziative social di Ceres… bellissimo il post all’indomani dell’assoluzione di Berlusconi nella sentenza Rudy bis

O quella famosa di Snickers, all’indomani di Uruguay-Italia…

O di Tom-Tom dopo Spagna-Italia agli ultimi Europei…

Il Real Time è l’occasione che hanno le aziende di mostrarci che c’è qualcuno dietro a un brand, che vive il nostro stesso mondo e che viene toccato nella sensibilità dalle stesse cose che stiamo vivendo.

L’operazione di umanizzazione del marketing è partita da un pezzo.

Il nuovo consumatore almeno merita questo.

 

10 Ottobre 2016

 

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È un mondo difficile…

Mi sono più volte chiesto come mai scrivo sempre più di rado i miei “segnali deboli“.

Qualche anno fa, appena mi imbattevo in qualcosa di abbastanza interessante e nuovo (almeno per me), mi prendevo del tempo e scrivevo… con l’orgoglio di condividere con altri le mie considerazioni e analisi.

L’arrivo di Facebook ha poi fatto sì che la pubblicazione di post, brevi e leggeri, rimpiazzasse in parte la scrittura sul blog… fino ad arrivare che adesso i “segnali deboli” non li scrivo più.

Ho provato a analizzare la cosa e mi sono detto che probabilmente anche questo è un segnale debole.

Quindi, cosa sta succedendo? Perché ho smesso di scrivere sul mio blog?

Al momento, mi sono venuti in mente due motivi.

 

Il primo…

Le informazioni che trovo interessanti e nuove, sono sempre di più… e non ci sto dietro.

Forse sono cambiato io e prima ascoltavo di meno, ma credo ci sia anche dell’altro.

Soprattutto credo il motivo vado trovato nella selezione alla grande quantità di informazioni e input che ci arrivano, attraverso tv, radio, giornali, web, social, conferenze, riunioni, cene tra amici, incontri casuali, etc.

Infatti, credo si sia attivato in noi un meccanismo di selezione naturale, della serie: sono costretto a scegliere con grande attenzione chi o cosa ascoltare, su cosa sintonizzarmi, da chi ricevere le telefonate, a chi dare l’amicizia social, a chi concedere il mio status di follower, e via di seguito.

D’altronde l’algoritmo di Facebook fa uguale: se non metti il Like al post di un amico, quell’amico non ti appare più in bacheca, in quanto viene giudicato dall’algoritmo del social, come un amico non interessante.

Quindi, è facile concludere che indirizzando le antenne verso obiettivi di tuo gusto, interesse e gradimento, gli input che ti arrivano abbiamo maggiore probabilità di produrre meraviglia nei tuoi confronti.

 

Il secondo motivo…

Quello che sta succedendo è veramente interessante.

Ogni giorno ce n’è una: questo mondo è sempre più strano e complesso e abbiamo sempre più strumenti per cogliere le sue stranezze, contraddizioni e rivoluzioni.

È curioso scoprire come i grandi professionisti dell’osservazione, in particolar modo i sociologi, i semiologi e gli antropologi, si sentano a volte spiazzati.

Qualche mese fa ho letto Antropop di Duccio Canestrini e credo sia un libro interessante per mettere in fila le stranezze.


Canestrini è un antropologo che ama prendersi in giro e fa notare come il suo mestiere sia costretto a modificare in continuazione l’angolo di lettura.

I nostri sistemi culturali sono infatti cambiati un bel po’.

Canestrini cita vari semplici esempi, tra cui… “una volta i rivoluzionari inneggiavano alla velocità (in primis i Futuristi), mentre oggi si infiammano per la lentezza“… “una volta le donne rivendicavano l’uguaglianza, oggi le femministe rivendicano la differenza“…

Antropop parla di mescolone planetario… “Quando un senegalese che vive a Firenze, vende a un americano un souvenir etrusco prodotto in Cina, è chiaro che il mestiere dell’antropologo o dell’etnologo ha bisogno di una rigenerazione culturale“.

Qualche tempo fa mi sono imbattuto in un prodotto come questo…


Se volete sapere cos’è e a cosa serve, andate a guardare la foto in fondo.

In un simile bollirone, è quindi facile rimanere frastornati e disorientati, ma anche divertiti e con la curiosità che gira in eterno movimento.

Da parte mia, non faccio a tempo a prendere uno spunto, che già me ne compare un altro, che magari contraddice quello precedente, ma è altrettanto interessante.

Quindi appena decido di ricavarmi il tempo per scrivere, vengo distratto da altro.

In continuazione.

E lo sforzo che faccio è magari quello di prendere qualche appunto, ma non quello di approfondire maggiormente, ovvero scrivere.

Perchè per me, approfondire è sinonimo di “scriverci sopra”.

 

Scrivere è una nobile modalità di confronto, non solo con gli altri, ma soprattutto con sé stessi.

E visto la complessità di questo mondo, è il caso che ognuno di noi ci metta del suo, per il bene di tutti.

Nella foto: accessorio natalizio per hipster simpatici.

6 Ottobre 2016

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Tolleranza e quinta dimensione

Gli strumenti tecnologici odierni ci portano a misurarci con il concetto di interfaccia.

Più l’interfaccia è progredito, più riusciamo a costruire un rapporto simbiotico con lo strumento che abbiamo a disposizione.

Il futuro (ma già il presente) ci consegnerà una tecnologia dove lo strumento sarà sempre più invisibile, impalpabile…

Per capirci meglio: avremo un computer, ma senza il computer… telefoneremo senza il telefono… vedremo un film senza aver bisogno di un monitor…

 

Insomma, la migliore interfaccia sarà quella dove ci sei solo tu.

Ma se sono solo io, che interfaccia è?

La battuta è carina, ma ci siamo capiti…

 

Comunque, uno dei temi forti della nostra contemporaneità non credo sia il rapporto tecnico tra noi e lo strumento, bensì quanto questi incida nel rapporto tra noi umani.

È sotto gli occhi di tutti quanto la nostra attività relazionale sia condizionata dalla tecnologia… e questo spesso dà lo spunto per inquadrare la nostra modernità in una dimensione sclerotizzata.

Dai… le solite cose: il lato schizofrenico dei Social Network, l’uso eccessivo del telefonino, i matrimoni nati in chat…

Per tanti come me, la tecnologia è soprattutto un’opportunità.

Altri ne colgono soprattutto il lato delle controindicazioni.

 

Questo scenario ha quindi anche a che fare con l’aspetto della tolleranza.

Il rapporto che abbiamo con il progresso tecnologico, infatti, spesso ci mette nelle condizioni di misurare il nostro livello di tolleranza, viste le continue nuove sollecitazioni che il presente ci riserva.

 

La tecnologia quasi ogni giorno ci pone verso nuove dimensioni e opportunità, che a volte facciamo fatica ad accettare, sia razionalmente che emotivamente.

 

Mi viene in mente Flatlandia… avete presente?

Il protagonista che vive in un mondo bidimensionale (lui è una figura geometrica, esattamente un Quadrato) ad un certo punto scopre la tridimensionalità.

Però quando agli esseri tridimensionali pone il dubbio se possa esistere una eventuale quadri-dimensionalità, si scontra con la medesima intolleranza dei bidimensionali che credevano di essere l’unica realtà rappresentabile.

 

Qualche giorno fa ho assistito ad un’altra conferenza sul tema della fisica quantistica… e ogni volta che sento parlare della quarta e quinta dimensione, avverto un’emozione che sta tra il piacere della scoperta e il disagio di non arrivare a capire.

 

Ma noi, fino a quanto siamo disposti a modificare la nostra rappresentazione del futuro?

Il futuro è andato ben oltre ad HAL 9000.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

HAL lo ricordiamo tutti…

HAL è il protagonista non secondario del film “2001 odissea nello Spazio”: è il super-calcolatore-elettronico (allora, lo chiamavamo così…).

HAL, come si sa, è un gioco di parole che deriva da IBM: è una lettera avanti.

Gli astronauti diretti verso Giove, nel film di Kubrick parlavano con Hal.

In un possibile sequel del film, avrebbe senso che lo sceneggiatore pensasse ad Hal come un “qualcosa dentro” e non più esterno a noi.

 

Quanto siamo disposti ad accettare di avere un Hal addosso?

Proprio addosso, quasi appartenesse alla nostra aura…

Attraverso un comando vocale, anzi mentale, potremmo improvvisare un dialogo con Socrate… Hal ne sarebbe capace.

Potremmo suonare come Miles Davis, anzi… con Miles Davis.

Oppure potremmo stoppare tutte le informazioni per starcene in pace: ed anche in questo Hal sarebbe imbattibile.

 

Anche questo è uno dei tanti rompicapi etici con cui dobbiamo misurarci.

Con, allo stesso tempo, tanto entusiasmo e tanta paura.

 

 

 

 

 

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